Ddl Zan, la Santa Sede chiede di abbassare i toni e punta al compromesso sulle scuole
Domenico Agasso Ilario Lombardo
Era inevitabile che Mario Draghi difendesse la totale autonomia dello Stato italiano. Le più alte gerarchie vaticane ne erano informate, tanto da sapere, attraverso contatti informali e i canali diplomatici che si sono attivati freneticamente in 24 ore, che il presidente del Consiglio avrebbe anche usato parole inequivocabili, senza minimamente lasciare ombre di ambiguità sull’argomento dei rapporti con la Santa Sede, entrati in fibrillazione dopo la richiesta del Vaticano di rivedere la legge contro l’omotransfobia, il cosiddetto ddl Zan. Draghi in Aula – in Senato, dove la norma è in discussione – scandisce per ben due volte che l’Italia è uno Stato laico ma aggiunge pure che «non è uno Stato confessionale». Una precisazione che suona come una risposta di sottile durezza nei confronti di quella che nell’intera maggioranza di governo non possono non considerare come l’ingerenza di uno Stato che invece è totalmente confessionale.
Avrebbe anche potuto evitare quella aggiunta, spiegano da Palazzo Chigi, se il premier non avesse voluto, lui in prima persona, educato da gesuiti, fissare un confine non oltrepassabile. E per farlo ha usato la sentenza considerata la madre di tutte le sentenze sulla laicità. La numero 203 del 1989 della Corte Costituzionale, redatta da Francesco Paolo Casavola, giurista di formazione cattolica. Quella sentenza fissa il principio supremo della laicità anche oltre la Costituzione, dove è regolato il rapporto concordatario tra l’Italia e lo Stato del Vaticano, cercando però un equilibrio con la sensibilità cattolica, in quanto non afferma una laicità anti-religiosa come invece viene interpretata quella della Francia.
Da quanto è stato riferito, Draghi ha cercato buoni consigli tra i suoi collaboratori per rifinire nei dettagli il testo stringato della risposta. Ne erano informati i partiti della maggioranza e lo ha condiviso con il Quirinale, dove siede il costituzionalista Sergio Mattarella. Il Colle, come anticipato ieri dalla Stampa, era stato messo al corrente delle lamentele del Vaticano dall’ambasciatore presso la Santa Sede, assieme al ministero degli Esteri e alla presidenza del Consiglio. Tutti attori che in qualche modo erano stati già investiti, in maniera più informale e con poco successo, delle preoccupazioni di Oltretevere.
In Vaticano l’ala più dialogante interpreta la replica di Draghi – «un po’ tutti ce la aspettavamo in questi termini», assicura un prelato – come il prologo dell’«effetto boomerang» che si temeva dopo la nota verbale. In ogni caso, anche la parte più interventista della Santa Sede è «pronta a lavorare a un accordo che possa accontentare tutti o quasi». Non a caso dalla Segreteria di Stato giungono segnali di abbassamento dei toni, si parla di evitare lo scontro e si fa trapelare che non c’è alcun desiderio di impugnare davvero il Concordato. Solo così, infatti, si potrebbe arrivare a una mediazione. E non è escluso che avvenga, sul nodo più dirimente: quello delle scuole private e delle iniziative che dovrebbero attuare per la Giornata nazionale contro l’omofobia. Non subito, però. Ora è naturale che, per non sembrare cedevoli verso la Chiesa, le posizioni in Parlamento si debbano polarizzare. Ma, come spiega una fonte della maggioranza, si sta già lavorando a possibili compromessi. E tra i primi esponenti politici italiani a cui adesso in Vaticano si guarda per un incontro ci sarebbero Enrico Letta e Roberto Speranza.
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