Così il premier impone l’agenda
Mario Deaglio
I discorsi pronunciati ieri dal Presidente del Consiglio prima alla Camera e poi al Senato segnano l’uscita dalla forma più dura dell’emergenza economico-pandemica e il passaggio a una vera e propria agenda, che non è ancora un programma strutturato ma rappresenta il primo tentativo, da moltissimo tempo in questo Paese, per porre fine all’epoca degli allarmi continui, delle grida al posto dei discorsi e spesso delle parolacce al posto delle parole. Questo cambiamento sembra essere il risultato di tre elementi molto diversi tra loro.
Da un lato il netto miglioramento sul fronte della guerra antivirus – non ancora vinta ma sicuramente volgente alla vittoria con il cambiamento della strategia delle vaccinazioni – e il recupero, timido ma un po’ superiore alle attese, della situazione economica. Il terzo, al quale non si pone mai l’attenzione che merita, è il calendario: a fine luglio scatta il semestre bianco, durante il quale il Presidente della Repubblica non può più sciogliere le Camere. Se rimane il carica a quella data, e su questo ci sono pochi o nessun dubbio, l’attuale esecutivo appare destinato a pilotare il Paese nella prossima, ancora lontana, fase elettorale verso un nuovo Parlamento, abbastanza diverso dall’attuale nella sua struttura e nel suo funzionamento.
Così siamo passati dai decreti Draghi della fase dell’emergenza all’ agenda Draghi , enunciata ieri, un insieme di vari punti tra loro collegati e sufficientemente coerente da formare un abbozzo, ancora tenue, di un vero e piano d’azione sul futuro del Paese. Questo passaggio è dovuto all’improvviso mutamento dell’opinione europea sull’Italia, derivante grazie all’enorme, meritato, prestigio del quale lo stesso Draghi gode in Europa mentre era pressoché assente in Italia: dai sorrisini ironici di Merkel e Sarkozy al G-20 di Cannes a proposito dell’Italia ai primi di novembre del 2011 siamo passati al largo sorriso di ammirazione di von der Leyen alla presentazione del Pnrr italiano di martedì scorso Anche son bastano i sorrisi a costruire una politica, questo è un lusinghiero punto di partenza. Forse non si tratta ancora dell’alba della ripresa economica ma sicuramente di un diffuso chiarore che normalmente precede l’alba e induce a un cauto ottimismo, pur a fronte di un paese più indebitato e più povero (come del resto buona parte d’Europa) ma forse per la prima volta voglioso di mettersi davvero in gioco, di fare cose nuove. In questo paese nell’ultimo quarto di secolo i compromessi tra le forze politiche sono serviti soprattutto a garantire la stagnazione, la tranquillità. Il Presidente del Consiglio ha invece ieri giustamente parlato di compromessi legati alla crescita. Il che significa cambiare molti meccanismi, che per esempio sostengano chi ha perduto il lavoro senza cercare a tutti i costi di reinserirlo nella sua impresa di prima, qualora questa non sia più vitale; che abbrevino molto rapidamente i tempi della giustizia amministrativa, un freno assai peggiore della pressione fiscale; che modifichino in maniera incisiva, anche se necessariamente non rapidissima, i meccanismi dell’amministrazione pubblica.
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