Se adesso torniamo nel giro che conta

Stefano Stefanini

Non c’è bilaterale Usa-Italia che non si concluda con la riaffermazione della “forte alleanza”. Fa i titoli il giorno dopo. C’è del vero. Cambiano i presidenti americani, ancora più frequentemente i premier italiani. Non il legame di fondo fra i due Paesi e questo è rassicurante. C’è qualcosa di diverso in questo blitz ancora in corso, Roma-Vaticano-Matera, di Antony Blinken? Abbastanza.

Due settimane scarse dopo i quattro vertici di Joe Biden, il segretario di Stato è tornato in Europa per battere il ferro ancora caldo nelle tre principali capitali dell’Ue. Londra aveva già incassato grazie al G7. In questi itinerari Roma spesso è a rischio esclusione. Ci ha aiutato la presidenza del G20, nonché l’altra capitale, il Vaticano. O il prestigio del presidente del Consiglio. Inutile domandarselo. Quello che conta è che l’Italia sia entrata subito nel giro delle consultazioni europee ristrette della nuova amministrazione americana. Se sapremo giocare bene le nostre carte ci si possono aprire le porte di quei “formati ristretti” che sono sempre la nostra spina nel fianco. Brucia ancora l’esclusione dai negoziati nucleari sull’Iran.

Cosa spinge l’amministrazione americana a guardare all’Italia? Innanzitutto, l’impostazione di fondo. L’America di Biden non vuole fare tutto da sola. Come quella di Trump, si sente sfidata dalla Cina su scala planetaria. Al contrario di quella di Trump punta sugli alleati. In primis, europei. Fra i quali l’Italia che ha le carte in regola per tre motivi, oltre che per la “forte alleanza” bilaterale: Nato, Ue e Mediterraneo. Per un’amministrazione che vuole innalzare il rapporto con l’Unione europea – per comune interesse – il nostro doppio binario, europeista e atlantista, ci fa automaticamente interlocutore essenziale. Contiamo per Washington quanto più contiamo a Bruxelles. A maggior ragione in una fase di transitorio appannamento delle leadership tedesca e francese. A Berlino si apre ormai la fase di attesa del dopo-Merkel che potrebbe durare tranquillamente fino a novembre. Dopo la batosta nelle regionali di domenica, sia pure temperata dall’irrisoria affluenza alle urne, Emmanuel Macron è entrato in sindrome elettorale fino alla prossima primavera. Non vuole essere il terzo presidente mono-mandato. A confronto, sia pure con l’incognita del Quirinale, Mario Draghi torreggia in stabilità oltre che in autorevolezza. La geopolitica fa il resto. Al di là dei Palazzi italiani, Quirinale, Chigi, Farnesina, e vaticani, la tappa romana di Blinken ha avuto un’impronta fortemente mediorientale-mediterranea: coalizione anti-Isis e incontro col nuovo ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid. Non lamentiamoci della geografia quando ci favorisce. L’Italia conta per gli americani nella misura in cui il nostro Paese sia pronto a impegnarsi in Mediterraneo e in Africa. Ovviamente nel nostro interesse nazionale, Libia docet. Ma non c’è solo la Libia: c’è l’intero quadrante del Mediterraneo occidentale e del Nord Africa nel quale possiamo essere l’alleato di riferimento – operando insieme a Francia e a Spagna non certo in solitario. Occorre però essere pronti ad assumercene responsabilità ed oneri anche al di fuori di un quadro istituzionale europeo. La proposta italiana di un gruppo ad hoc per l’Africa su terrorismo, impatto destabilizzante e ricadute migratorie, con diretta partecipazione africana, è un segnale lungimirante – basta che non sia un gruppo di studio ma operativo.

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