Conte-Grillo, i tentativi in extremis di Di Maio e Fico anche se il Movimento è quasi alla scissione

di Monica Guerzoni

Di Maio e Fico ci hanno provato davvero a ricucire il rapporto tra il comico e l’ex premier e ancora non si arrendono, ma i margini di una mediazione che scongiuri la scissione del Movimento 5 Stelle sono sempre più stretti. Alle otto di sera, quando sugli smartphone rimbalza la notizia che Vito Crimi si è arreso al dicktat dell’«Elevato» e ha messo in moto la macchina per il voto del comitato direttivo, nella war room di Giuseppe Conte vedono nero: «Se Grillo non fa passi indietro, non c’è altra via che costruire una nuova forza politica».

Il partito di Conte contro il partito di Grillo. L’ex capo del governo si dice «pronto e a posto con la coscienza», sente di aver fatto le cose per bene e non si ritiene responsabile dell’implosione del Movimento. «È Grillo che ha fatto fuori me – si è sfogato anche ieri con i collaboratori — Io ho lavorato quattro mesi al progetto di rifondazione e certo non lo butto nel cestino». Sarà una sfida durissima, l’avvocato pugliese lo ha messo nel conto. Ha chiaro che, se le elezioni saranno nel 2023, il consenso di cui ora gode potrebbe essere assai più risicato, ma non vede alternative. E d’altronde l’autostima non gli fa difetto e i paragoni con Mario Monti o Lamberto Dini non lo spaventano.

L’idea è una lunga campagna elettorale all’americana, che inizi con una «grande raccolta fondi» e un tour a tappeto nei territori. «Ci vuole tempo e il tempo c’è», è il leitmotiv con cui Conte e i suoi cercano di guardare avanti con ottimismo. «Meloni e Salvini sono partiti dal 3% e adesso stanno al 20», ragionano nello staff dell’ex premier. E se i numeri dei deputati e dei senatori presunti contiani si sono già ristretti rispetto a due giorni fa, quel che rincuora il giurista di Volturara Appula è l’affetto che dice di sentire tra la gente. Tradotto in numeri dei sondaggisti, il partito di Conte varrebbe nelle urne tra il 10% e il 15% e quel che più colpisce il fronte anti-Grillo è «che il Movimento senza Conte scenderebbe sotto al 7%».

Ragionamenti che servono a reclutare eletti, ma che tradiscono l’amarezza di chi puntava a guidare la più grande forza politica del Parlamento e ora — salvo miracoli — non ha altra strada che costruire un partito ex novo, con quel che costa in termini di rischi e di soldi. E poi c’è il problema dei gruppi parlamentari. Alla Camera, dopo la mozione degli affetti di Grillo per richiamare le sue pecorelle, i deputati pronti a seguire Conte sarebbero tra i 30 e i 40. E al Senato, dove in percentuale il bottino sarebbe più corposo, serve un simbolo collaudato. I grillini mettono in giro che Leu avrebbe offerto a Conte il marchio. Ma anche se fosse vero, lui non accetterebbe, perché l’abbraccio con i bersaniani allontanerebbe dal progetto «big» della primissima ora come Paola Taverna.

«La ricomposizione è l’unica strada», spera e media il ministro Federico D’Incà. E così la pensa Virginia Raggi, che ha parlato a lungo con Conte al telefono. Il tema è da che parte staranno Di Maio e Fico, senza i quali, a sentire tanti parlamentari, «il M5S non esiste». Il più attivo tra i pontieri è Di Maio, che è andato a casa di Conte per convincerlo a frenare sul nuovo partito e poi ha fatto il punto con Fico. «Giuseppe dobbiamo scongiurare che i gruppi si spacchino e il M5S esploda» ha provato il tutto per tutto il ministro degli Esteri, preoccupato per l’impatto che la scissione avrebbe su governo, amministrative, Quirinale ed elezioni politiche. Conte non si è sbilanciato, ma il primo esito del colloquio di un’ora è stato l’impegno a incontrare i deputati, anche per smentire l’accusa di aver parlato solo con i senatori snobbando il gruppo della Camera.

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