Draghi, i partiti e la rivoluzione che serve in Rai
Massimiliano Panarari
Un ultimo tassello. Decisivo, e incompiuto. Last, but not least, insomma, nella consapevolezza di un passaggio tanto critico quanto oggi, però, assai prossimo a rappresentare anche una finestra di opportunità. L’esecutivo di larghe intese è, inequivocabilmente, il governo del presidente Mario Draghi. La «costituzione materiale» dell’attuale governo si è infatti configurata, ogni giorno di più, come inseparabile, per un verso, dall’indispensabilità del professor Draghi quale figura di sintesi, capace di spostare ogni volta in avanti l’equilibrio in maniera dinamica, e non secondo quella estenuante mediazione (troppo spesso statica e “paludosa”) che ha caratterizzato alcuni dei suoi (anche immediati) predecessori.
E per l’altro verso, tale «costituzione materiale» si è rivelata inscindibile dalla capacità e volontà di decidere davvero, sciogliendo pure alcuni nodi di Gordio che si trascinavano da parecchio, a cui i veti incrociati delle forze politiche o l’attendismo equilibrista di altri presidenti del Consiglio suggerivano (impropriamente) di non mettere mano. L’infilata è sotto gli occhi di tutti: il premier ha effettuato – di concerto con le figure istituzionalmente partecipi del processo decisionale – le nuove nomine in Cassa Depositi e Prestiti (diventata negli ultimi anni la primaria cassaforte finanziaria dello Stato) e nei servizi di intelligence. Nel rispetto delle prerogative dei soggetti coinvolti ma, altresì, all’insegna di quello che si potrebbe chiamare un ferreo (e molto opportuno) decisionismo.
Ora siamo alla vigilia dell’Assemblea degli azionisti della Rai, uno snodo importante per il sistema-Paese, tradizionalmente considerato come un intoccabile “dominio riservato” dei partiti (e, spesso, dei loro appetiti meno commendevoli). E ci troviamo anche alla fine della sua stagione «a egemonia sovranista», che ha lasciato una lunga lista di eredità negative, dallo stato del bilancio in rosso alla programmazione sovente non all’altezza dei mutamenti del gusto del pubblico, oppure perdente nei confronti dei competitor (con rare eccezioni, spesso riconducibili alla categoria dell’«usato sicuro», come il Festival di Sanremo o l’intramontabile Commissario Montalbano). Nell’epoca delle piattaforme e delle media company globali, per la Rai vale tuttora (ancorché riveduta e corretta) l’etichetta di lunga data di azienda culturale pubblica più importante della nazione. Anzi, del sistema-Paese, giustappunto, che nella «tv di Stato» (come si chiamava in epoca analogica) dovrebbe reperire un complesso prezioso di risorse e di asset a disposizione, anziché essere malauguratamente costretto ad assistere a scelte sbagliate o inadeguate, e a un trascinamento inerziale al ribasso.
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