Draghi, i partiti e la rivoluzione che serve in Rai

Ripartire – il verbo che dovrebbe convintamente ispirare l’agenda di tutti i decisori – coincide anche, a volte, con il rimettere in discussione una rotta abituale, specie se non conduce alla meta indicata. E, dunque, dovrebbe significare, in questo caso, un risoluto ripensamento del significato del servizio pubblico radiotelevisivo nell’età della crossmedialità, dell’estrema difficoltà di un progetto pedagogico – se non al prezzo di un grande sforzo di intelligenza e creatività –, della fruizione frammentaria e orientata da un “palinsesto” personale e individuale, e della convergenza digitale. Altrettante questioni fondamentali – che, peraltro, ormai fanno seriamente rima con sopravvivenza – mai affrontate in profondità dalle varie riforme (o “controriforme”) recenti. Il paradigma del servizio pubblico, che ha costituito uno degli apporti più originali e interessanti offerti dall’Europa alla storia della televisione internazionale, deve provare a rideclinare in maniera adatta alla contemporaneità (e, anche, mettendo sotto una luce critica alcuni aspetti dello spirito dei tempi) quella mission originaria della Bbc che il suo fondatore John Reith sintetizzava nella laica trinità dell’«informare, intrattenere, educare». Va constatato il fatto che dalle formazioni politiche non arrivano neppure adesso segnali significativi in questa direzione. E, allora, visto che le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne, dovrebbe scoccare l’ora del «metodo Draghi» anche per le nomine nella radiotelevisione pubblica. E chissà che non sia veramente giunto il momento in cui «Fuori i partiti dalla Rai» da slogan ipercitato (pure dai diretti interessati…) possa tramutarsi in realtà.

LA STAMPA

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