Renzi vuole dire sfiducia
Sospetto e scetticismo, naturalmente, non nascono dal nulla. A giustificarli, infatti, c’è il percorso intrapreso dall’ex rottamatore dopo la débâcle nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Aveva promesso l’addio alla politica in caso di sconfitta, ma poi ci ha ripensato; ha di fatto condotto il Pd all’alleanza di governo con i Cinquestelle, salvo fare una scissione e andarsene appena due settimane dopo; ha voluto il governo con Conte ma poi lo ha fatto cadere (chi si ricorda del Mes? E della prescrizione?); ora si sente l’artefice della nascita del governo Draghi, ma nulla può garantire che domani non cambi idea di fronte ad una prospettiva politicamente più conveniente per se stesso o per il suo piccolo partito.
È per questo, anche per questo, che all’inizio dicevamo dell’esistenza di un problema di reciproca fiducia. Intendiamoci, la questione non riguarda certo solo Renzi. Ha clamorosamente riguardato, per esempio, anche Matteo Salvini, dopo i fasti in costume al Papeete: il suo declino elettorale è cominciato allora e non si è arrestato più. La fiducia (quella dei cittadini prima di tutto, e poi anche quella tra i soggetti in campo) in politica ha un ruolo essenziale. Non a caso, ancora si ricordano la foto e lo slogan con i quali, di fatto, John Kennedy liquidò Richard Nixon nelle presidenziali del 1960: il faccione del candidato repubblicano e poi la domanda “comprereste un’auto usata da quest’uomo?”. La risposta, inequivoca, fu no. Questione di fiducia, insomma. Che è un po’ come il coraggio di don Abbondio: se non ce l’hai, se l’hai perduta, recuperarla è un’impresa.
LA STAMPA
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