Giustizia, Paolo Mieli: “Sì al referendum o niente cambierà”, il giornalista al fianco di Salvini
«Ma certo che firmo i referendum sulla magistratura proposti dai Radicali e dalla Lega. E ti dico di più, del loro contenuto non mi importa nulla; anzi, arrivo a dire che non mi convince del tutto. Mi fido però, perché fin dai tempi di Marco Pannella i radicali si sono ritagliati il ruolo di sentinelle sui temi dei diritti umani e della giustizia e vedo chiari di luna che non mi piacciono». Paolo Mieli si dichiara «non esperto» di diritto ma sono mesi che si impegna con costanza mediatica per rafforzare la corrente di pensiero che insiste per una riforma della giustizia. «Mi fido ciecamente della ministra Cartabia e delle sue riforme» spiega il due volte direttore del Corriere della Sera, per tacere delle decine di altri ruoli ricoperti, «ma ancora di più mi fido dei referendum, perché senza la loro spinta temo che il lavoro della Guardasigilli finisca nelle secche». E in effetti, proprio seguendo i lavori dei radicali, numi tutelari di Mieli in materia di giustizia, si scopre che è oltre trent’ anni che Pannella e i suoi eredi denunciano le storture dell’apparato giudiziario, «però anche le toghe che dichiarano di voler cambiare il sistema, poi sotto sotto lavorano perché tutto resti uguale». Né c’è da confidare nella Ue. Bruxelles ha posto come condizione per prestare all’Italia i soldi del Recovery Fund, tra le altre cose, una riforma che renda efficiente la nostra giustizia. Ma il direttore non si fa illusioni: «La Ue non farà esami severi, tira aria di tolleranza, le basteranno dei contentini che velocizzino i processi per promuoverci, mentre servirebbe una riforma radicale che tagli gli appigli delle correnti della magistratura sull’esercizio del potere giudiziario; perciò è necessario un importante contributo dell’opinione pubblica, che produca un effetto positivo verso il cambiamento». E quale strada più diretta se non milioni di firme sul referendum dei radicali e di Salvini? «Perché senza i referendum la Cartabia è perduta; e se aspettiamo i partiti per riformare la giustizia, stiamo freschi».
Pensi che la politica non voglia toccare i giudici per timore di finire poi processata, come al solito?
«Più che la paura può la pigrizia. Finché non gli capita in prima persona, il politico non si cura del problema; anzi, casomai gode quando viene indagato un avversario. Poi, quando alla sbarra ci capita lui, si avvolge nella bandiera e denuncia la magistratura politicizzata, ma a quel punto è grottesco».
Chi più chi meno. Il Pd, per esempio, pare tuttora connivente con lo strapotere giudiziario malato…
«Ogni nuovo segretario del Pd, ormai penso che siamo al quattordicesimo, giura all’insediamento che mai si avvarrà dei giudici per far politica e si spende in nobili dichiarazioni di principio sulla giustizia…».
E poi però?
«Se l’avversario finisce in guai giudiziari, il Pd fa festa e ci marcia sopra. In trent’ anni non ha mai eccepito né detto “questo è troppo”, neppure nel caso di Salvini indagato per sequestro di persona. È chiaro che i dem non metteranno mai mano alla magistratura. Hanno un vantaggio troppo evidente».
Cosa intendi?
«Se rifletti, quando il centrodestra vince le elezioni, succede che prima o poi una sua componente si stacca per spostarsi a sinistra e consentire al Pd di tornare al governo anche se non ha i voti. E questo avviene immancabilmente con un aiutino della magistratura. Mai è accaduto l’inverso».
È colpa però anche del centrodestra, che si rende disponibile ai ribaltoni…
«Questo perché gli manca una classe dirigente adeguata. Fatto sta che dopo trent’ anni possiamo ritenere stabile questa dinamica, tanto che scommetto che potrebbe replicarsi anche se il centrodestra vincerà le prossime elezioni».
C’è un rimedio?
«L’unico è che il centrodestra trovi un suo Ciampi o un Prodi, una personalità autorevole e chiaramente esterna alla quale affidare il ruolo di premier, una sorta di garante. Conte, a suo modo, lo era».
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