Così Draghi minacciò: mi dimetto. 5S contro Grillo: come Berlusconi

ILARIO LOMBARDO

Beppe Grillo come Berlusconi. È un accostamento da incubo che nessuno, nel M5S, si sarebbe mai sognato di fare. E invece è successo, ieri, dopo aver saputo della telefonata del premier Mario Draghi al comico genovese. Telefonata che ha preceduto quelle di Grillo per chiedere ai ministri del M5S di accettare una mediazione con la ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Secondo diverse fonti grilline di alto livello, tra cui sottosegretari ed ex ministri, quanto accaduto rileva un cortocircuito e scivola pericolosamente su terreni di «inopportunità», perché incrocia la vicenda privata e drammatica di Ciro, il figlio di Grillo accusato di stupro, tra l’altro proprio alla vigilia dell’udienza preliminare in Sardegna. Per come la vedono i 5 Stelle, oltre a ragioni di tatto politico vista la difficile convivenza ai vertici con Giuseppe Conte, Draghi avrebbe dovuto sapere che sul tema della giustizia in questo momento il comico è, dicono, «ipersensibile». «O quantomeno interessato, se non vogliamo dire apertamente in conflitto di interessi come è stato Silvio Berlusconi per tante leggi ad personam». Il reato di cui è accusato il figlio è tra quelli elencati nelle eccezioni della nuova formulazione del processo penale che sospende la prescrizione dopo il primo grado ma fissa l’improcedibilità (di fatto una tagliola) dopo due anni in appello e un anno in Cassazione. Per la violenza sessuale, come per la corruzione, l’associazione a delinquere, e altri reati, i termini si allungano a 3 anni in appello e un anno e sei mesi in Cassazione. Draghi non avrebbe dovuto chiamarlo, dicono le fonti, al di là delle modifiche apportate su spinta dei 5 Stelle. Oppure, «avrebbe dovuto sfilarsi» Grillo quando ha ricevuto la chiamata, rivelata soltanto l’indomani mattina dal Fatto quotidiano. Le stesse fonti poi si pongono anche altre domande: perché Draghi gli telefona se c’è un capo politico reggente che è Vito Crimi? Perché non chiama anche Conte, lasciando invece avvelenare di ulteriori sospetti la faida interna sulla leadership e sulla diarchia in un momento in cui si sta cercando faticosamente una tregua? Ma fino a qui la questione è politica e le risposte possono essere sia sostanziali sia formali: finché il nuovo Statuto non passa e non viene incoronato con una votazione online, Conte non è ancora niente per il M5S, mentre Grillo un ruolo lo ha: è il garante della linea e dell’azione politica dei 5 Stelle. Non solo, è lui ad aver determinato la nascita degli ultimi due governi e quasi tutti gli snodi fondamentali della storia dei grillini dal loro ingresso nei palazzi in poi.

Sta di fatto che, a detta di tutti nel M5S, è stata la solita assenza di una catena di comando chiara a generare il pasticcio su come gestire le trattative e chi doveva farlo. I quattro ministri sommersi dagli insulti dei colleghi, sconfessati dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, autore dell’impianto originario della riforma, e dall’ex premier Conte, fanno trapelare la loro versione dei fatti. Le ricostruzioni si concentrano soprattutto su un momento, quel momento particolare, in cui vengono messi da Draghi di fronte alla responsabilità di poter innescare una crisi di governo. «Se non passa la riforma sarò costretto a mettere nelle mani del presidente della Repubblica le mie dimissioni». Così li avrebbe avvertiti il premier, stando ai grillini, in seguito informati anche del fatto che in quelle ore ci sarebbero stati contatti informali tra Palazzo Chigi e il Quirinale.

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