Così Draghi minacciò: mi dimetto. 5S contro Grillo: come Berlusconi
Nel panico di non sapere che fare, se assumere su di sé una decisione dalle possibili conseguenze esplosive per l’esecutivo, si è generato anche un paradosso, uno dei tanti prodotti dalle convergenze parallele che imbrigliano i grillini. Due dei quattro ministri che votano a favore della riforma in Cdm, Federico D’Incà e Stefano Patuanelli, quest’ultimo anche capodelegazione, sono considerati uomini di fiducia di Conte, il quale ci mette meno di mezz’ora a dichiararsi contrario alla legge. E ancora non sapeva della telefonata di Draghi a Grillo. Per l’ex premier non è solo una questione di merito, di modifiche al processo penale, che pure non condivide in questi termini, come ha apertamente dichiarato ieri. Ma è «il metodo del capo del governo – sostiene – che ha l’effetto di umiliare il M5S». E non si riferisce solo al fatto che questa della prescrizione è ancora una volta una riforma o una scelta fatta dal M5S a essere depennata dal suo successore, dopo la sospensione del cashback, l’indebolimento dell’Autorità anticorruzione, e i cambi ai vertici dei servizi segreti e di Cassa depositi e prestiti. Per Conte ci poteva ancora essere spazio per un approfondimento, per cercare altre «soluzioni di compromesso», che lui stesso, in qualità di giurista, era pronto a mettere sul tavolo, nella convinzione che la giustizia fosse davvero la bandiera più identitaria per il M5S assieme al Reddito di cittadinanza. Invece, nota l’avvocato, Draghi ha voluto accelerare, forzare i tempi in Cdm, dando l’impressione di non poter o voler aspettare che il Movimento ritrovasse la compattezza e non rimanesse esposto a una strategia incerta per colpa delle solite spaccature e le solite lotte interne.
LA STAMPA
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