Quello spirito che chiamiamo unità nazionale Quello spirito che chiamiamo unità nazionale

MASSIMO GIANNINI

Non scomoderemo Albert Camus, che sosteneva “tutto quello che so della vita l’ho imparato su un campo di calcio”. Ma forse c’è una morale da cogliere, nella stupefacente congiunzione astrale che in questa domenica di luglio vedrà l’Italia protagonista nelle due cattedrali più sacre dello sport mondiale. Ci giochiamo tutto in una manciata di ore, tra Wimbledon e Wembley. Non solo la finale del più prestigioso torneo di tennis nel dopo-Brexit, giocata dal primo italiano che calpesta quell’erba da 144 anni a questa parte. Non solo la finale del primo campionato europeo dell’Era Covidica, disputata dagli azzurri nel tempio di quella che Brera chiamava la Dea Eupalla e che noi già violammo due volte, con Capello nel 1973 e con Zola nel 1998. Matteo Berrettini e Roberto Mancini sono i portabandiera di un Paese che prova a rialzare la testa e di un’Europa che cerca di ritrovare se stessa. Comunque vada a finire, hanno già vinto.

Accade, è già accaduto. Lo sport riflette nell’immaginario collettivo lo spirito e lo stato di salute psico-politica di un popolo. Cos’altro è stato il Brasile stellare tra i ‘70 e i ‘90, tra le magie carioca di Pelè e le geometrie celesti di Falcao? Cos’altro è stata l’Olanda degli Hippies del ‘74, tra il genio di Cruijff e la sregolatezza di Neskeens? Cos’altro è stata l’Argentina del generale Videla del ‘78, tra le metafore da panchina di Cesar Luis Menotti che grida “la zona è libertà” e le galoppate sulla fascia di Mario Kempes che alla cerimonia di premiazione si rifiuta di omaggiare il dittatore? Cos’altro è stata la Germania quadrata di Berti Vogts e Franz Beckenbauer, la “macchina che sforna vittorie”, tutti sanno sempre come giocherà eppure nessuno sa come batterla?

Cos’altro è stata la Francia neo-gollista ma multietnica del ‘98, tra i ricami dell’algerino Zidane e le spaccate del caraibico Thuram? Cos’altro è stata la Spagna di Bambi Zapatero e del boom economico tra il 2008 e il 2012, quando dilagano le furie rosse di Raul, Xavi e Iniesta? Cos’altro è stata la stessa Italia dei ragazzi dell’82, tra i golazi di Pablito Rossi, l’urlo liberatorio di Tardelli e lo scopone in aereo con Pertini e Bearzot? In mezzo, tanto per restare sospesi tra football e tennis, mettiamoci la finale di Davis di Cile ‘76, quando Panatta e Bertolucci al Nacional di Santiago si prendono la Coppa sfoggiando un’irridente maglietta rossa, sotto lo sguardo sulfureo di Pinochet. E magari aggiungiamoci pure i fasti del Milan berlusconiano, che per un ventennio anticipano e accompagnano la pirotecnica “discesa in campo” e poi la tragicomica caduta politica del Cavaliere. Se ci pensate, vale anche qui la formula di Piero Gobetti sul fascismo: in ciascuna di queste avventure si è incarnata la “biografia di una nazione”. Lo sport è tifo, vivaddio. Ma è anche geopolitica. E il pallone, come scriveva Pasolini, è l’ultima rappresentazione religiosa della nostra Civiltà. Non è un caso se Boris Johnson impavesa il mitico numero 10 di Downing Street di striscioni coccarde e bandiere, come fosse un pub di Covent Garden: l’Inghilterra che vince, per lui, è la conferma che c’è vita solo fuori dalla Ue e che di nuovo, come nei ruggenti Anni dell’Impero, quando c’è tempesta sulla Manica è il Continente a essere isolato. E non è un caso se, all’opposto, Sergio Mattarella questa sera sarà a Londra, seduto in tribuna d’onore a gridare o nel suo caso sussurrare “Forza Italia” insieme a Ursula von der Leyen. Oggi, piaccia o no ai frugali del Nord e ai sovranisti dell’Est, davvero l’Europa siamo noi. Noi che siamo arrivati fin qui, dopo aver combattuto per primi qui in Occidente la pandemia più feroce del secolo e aver battuto negli stadi del Continente il Belgio e la Spagna, il canadese Auger-Aliassime e il polacco Hurkacz. E ancora, non è un caso se lo stesso presidente della Repubblica ha già convocato domani al Quirinale Berrettini e l’intero team azzurro, per festeggiarli qualunque sia stato il verdetto del campo. Perché se anche perdessero la doppia finale, questa Meglio Gioventù ci riporta a casa il trofeo dell’orgoglio. Come dice quel fine intellettuale del pallone che è Jorge Valdano: esistere è più importante che vincere una partita, il gioco serve a sentirsi un po’ più felici e un po’ più amici e “quel fondo di fascismo che si annida dietro la filosofia del risultato è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti”.

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