Mancini, un uomo quasi perfetto
Paolo Brusorio
DALL’INVIATO A LONDRA. In fondo Vujadin Boskov ci era arrivato tanti anni fa, basta pescare nel repertorio del tecnico di quella magica Sampdoria per avvicinarsi alla verità. «Dove tutti vedono sentieri, grandi giocatori vedono autostrade». E lo diceva di Roberto Mancini. E lo diceva con una convinzione tale che se fosse ancora vivo sarebbe il primo ad applaudire il suo ex numero 10. Ora lo possiamo dire, davanti a Roberto Mancini, nel maggio del 2018 non c’erano sentieri, ma un grattacielo da scalare. E noi stavamo sottoterra, nelle cantine. Tre anni abbondanti dopo, l’Italia è sul tetto d’Europa e ce l’ha portata questo signore che compie 57 anni a novembre, ct prodigio, se ce n’è uno, dopo esserlo stato come giocatore. Il prossimo 13 settembre fanno quarant’anni esatti dal suo esordio in serie A e allora è quasi logico che il 4 ottobre cadano gli anta dal battesimo del gol, a Como, e, ovviamente, con la maglia del Bologna. Tutto subito, tutto in fretta.
Il talento immenso da calciatore, però, non poteva essere garanzia di successo sulla panchina della Nazionale. Vero, il Mancio ha vinto e stravinto con l’Inter, ha portato il Manchester City al titolo in Premier rompendo un digiuno che durava da 44 anni. Ma la Nazionale, chi l’avrebbe mai detto? Anche qui: peggio non si poteva fare dopo un fallimento come quello di Ventura, serviva però un visionario per immaginarsi un cammino simile. Un visionario. O una visione. Quella che ha sempre avuto Mancini. L’intuizione è di Costacurta, al tempo vice commissario della Figc post Tavecchio, è lui che lo chiama in azzurro. Mancini, che stava allo Zenit, un po’ ci pensa, ne parla con Vialli, e con chi altrimenti?, e poi dice sì. «Il bello di allenare una nazionale è che non devi fare il mercato. Per un allenatore è stressante». Non fa mercato il ct, ma sa che oltre a dare una forma tecnica all’Italia deve lavorare sulla testa dei giocatori. A prescindere dai nomi. C’è una nube nera che incombe su ognuno di loro, peggio di quella fantozziana. Fissa subito un obbiettivo, è il Mondiale del Qatar. Lunga gittata. Sembra voler mettere le mani avanti, ma gli serve uno scudo per proteggere chi veste la maglia azzurra.
Caricarli subito di responsabilità non avrebbe senso, i superstiti del disastro sono scioccati, le reclute hanno una fottuta paura di accostarsi a una maglia pesante come fosse una lettera scarlatta. Comincia battendo l’Arabia Saudita in uno stadiolo della Svizzera, riparte da Balotelli ed è convinto di farne il centravanti della sua Nazionale. Non ci riuscirà, ma quando ci rinuncia è consapevole di averle provate tutte. Pesca gli azzurri in ogni mare, un giorno chiama Vincenzo Grifo e tutti a chiedersi, «ma chi è mai questo Grifo», arruola Piccini e le facce si allungano. Boh. Più esercitazioni di gruppo che convocazioni, deve testare il materiale umano il ct. Senza mettere pressioni ad alcuno di loro. In Portogallo, per dirne una, va a giocare una partita di Nations League con Caldara e Romagnoli centrali, in attacco c’è Zaza. Dispersi tutti. Italia sconfitta, ma neanche di quella sera il ct butta via qualcosa. «Giocate e divertitevi»: la sua è una formula semplice, ma bisogna avere le (s)palle per sostenerla. Sa di non operare a cuore aperto, di fare un gran bel mestiere. Come gli ha detto Vialli, solo più tardi entrato nel gruppo, nei giorni che hanno preceduto l’investitura: «Roberto, dal calcio abbiamo avuto tanto e ora è giusto fare qualcosa per sdebitarci».
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