A un passo dalla gloria: Berrettini lotta, poi cede a Djokovic
Stefano Semeraro
Il ricordo che ci terremo addosso, di questa giornata comunque fantastica, la luce da accendere nei giorni storti, è il coro che ha accompagnato Matteo Berrettini per tutta la sua prima – e immaginiamo, speriamo, fortissimamente crediamo – non ultima finale Wimbledon. «Mat-te-ò! Mat-te-ò», tre sillabe, un verso d’ amore per l’italiano che ha stregato il torneo, che ha continuato a piovere dalle tribune anche quando, alla fine del quarto set, era chiaro che il finale era già scritto.
«It’s coming Rome», ha provato qualcuno a scrivere su un cartello, facendo il verso al motto dell’Inghilterra del calcio; ma la coppa di Wimbledon è rimasta materialmente qui, nella teca dell’All England Club, e virtualmente in Serbia, per la sesta volta alzata dalle mani di Novak Djokovic. Un fuoriclasse immenso, non sempre, non da tutti amato, ma che ieri ha timbrato l’ennesimo cartellino per l’immortalità (sportiva, non esageriamo). Il sesto Wimbledon gli vale il 20esimo major, a pari merito con Roger Federer e Rafa Nadal, e anche un trampolino verso il Grande Slam che potrebbe raccogliere a settembre agli Us Open.
Berrettini, contro un Mostro del genere, ha fatto quello che doveva e quello che ha potuto. Ci ha dato una partita e un motivo per essere orgogliosi del presente e fiduciosi nel futuro. Ha vinto il primo set, sradicandolo letteralmente dalle mani del Djoker, che credeva di averlo già in tasca sul 5-2, cucinando un piccolo capolavoro nel tie-break e dopo un’ora e 10 minuti si è trovato a due set dall’Impossibile. Poi ha continuato con la rotta che si era immaginato alla vigilia, picchiando sul servizio, parando – quando poteva – con il rovescio e attaccando con il diritto, a costo di qualche errore di troppo. Purtroppo per lui Djokovic è Djokovic, il numero uno del mondo (forse, probabilmente) la migliore risposta della storia e quando ha iniziato a limare le percentuali il match ha cambiato colore, sotto il cielo livido e sciroccoso di Wimbledon. Novak ha rimesso subito le mani sulla coppa a inizio secondo set. Nel terzo Matteo ha avuto la chance di rientrare nel sesto game, ma non è riuscito a calibrare due passanti. Nel quarto, mentre Djokovic accendeva le batterie (mentali) di riserva, è calato al servizio. Dopo l’ultimo errore di diritto si è piegato sulle ginocchia, con il Djoker steso sul prato, le braccia a croce prima di assaggiare, come da tradizione, l’erba del Centre Court. «È stata una battaglia», ha ammesso dopo 3 ore e 24 minuti Djokovic. «E Matteo è davvero il martello che dicono: l’ho provato sulla mia pelle, sia qui sia a Parigi». Berrettini ci ha creduto, ha lottato, non ha nulla da rimproverarsi. Nessuna percentuale e nessuna statistica dà la misura di cosa significhi giocarsi una finale a Wimbledon, contro un vampiro del genere.
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