Europei 2021, sono (finalmente) tornati gli abbracci
Avevamo smesso di abbracciarci. Persino dimenticato come si fa. E a noi italiani piace tanto abbracciarci. Ce lo impedivano i Dpcm. Neanche una stretta di mano, ci era consentita. Ci siamo al più sfregati i gomiti, le nocche delle dita, surrogati pallidi come il caffè di cicoria nei tempi di guerra. Siamo stati separati, i corpi considerati, così come il respiro dell’altro, non una ragione di desiderio o di contatto, ma un pericolo, un pericolo mortale. I corpi come contagio, come arma batteriologica; l’altro da noi un rischio, al massimo un rimpianto. Ci siamo, non dobbiamo e non possiamo ancora smettere di farlo, nascosti dietro delle maschere di stoffa. Lì abbiamo celato i nostri stati d’animo, non solo i nostri lineamenti. Questi mesi ci hanno fatto più fragili, mettendoci al cospetto con la fine come possibilità, con il dolore come spirito del tempo. Siamo più esposti ai sentimenti, e disabituati al più desiderabile di tutti, la gioia, specie collettiva. Forse per questo nel pensare alla bellezza rivoluzionaria, sentimentalmente catartica, della felicità esplosa in una notte di luglio in ogni casa e piazza di questo meraviglioso paese, mi vengono in mente tre immagini.
La prima, la più bella, quella indimenticabile è l’abbraccio tra le lacrime di Roberto Mancini e Gianluca Vialli, due uomini adulti che nel momento della gioia più intensa non hanno avuto timore di piangere stretti l’uno all’altro, fregandosene delle telecamere e del mondo che li guardava. Si abbracciavano come due amici che molto hanno vissuto, molto hanno sofferto, che hanno condiviso un sogno e faticato per farlo diventare realtà. Quell’abbraccio parlava di un sentimento, l’amicizia, che non consente sospetti e non richiede prove. Piangevano, quei due uomini, e nella forza di quelle mani strette sulle spalle dell’altro c’era il possesso e lo scambio che ogni amicizia, cementata dal tempo e dalla sintonia, rende più forti, rende in fondo invincibili anche se sconfitti. Perché quell’abbraccio ci sarebbe stato, ne sono convinto, anche se la lotteria dei rigori avesse premiato i nostri avversari.
Perché Roberto e Luca si sono scelti, per attraversare giorni, mesi e anni, restando uniti. E rispettando i ruoli. Se vi capiterà di rivedere l’immagine del momento in cui Chiellini, Mancini e i compagni di squadra alzano la Coppa al cielo aguzzate la vista: spostate lo sguardo sulla destra del fotogramma. Lì troverete, di fronte alla squadra e all’allenatore, un uomo che si è messo volutamente in disparte, ma con allegria. Che scegliendo di non andare in quell’immagine ha detto, con la grandezza della rinuncia inosservata, che il merito principale era loro, non suo.
Poi l’abbraccio tra l’allenatore dell’Inghilterra, uno che i rigori finirà col sognarseli la notte, e il suo giocatore, Bukayo Saka, che aveva sbagliato l’ultimo penalty e cambiato destinazione alla coppa: non Home ma Rome. In quell’abbraccio c’era la consolazione, l’affetto di un uomo che il ruolo e l’età rendono comunque padre e che sente il dovere di confortare un ragazzo deluso, mortificato dalla delusione provocata non a sé stesso ma a un popolo intero. Il corpo dell’allenatore è il rifugio, la protezione dalla realtà quando si fa minaccia.
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