Europei 2021, sono (finalmente) tornati gli abbracci

Infine, la notte stessa, dopo l’esito della Copa America vinta dall’Argentina, l’inopinato stingersi fino a togliersi il fiato di due storici concorrenti: Neymar e Lionel Messi. L’uno gioca in Francia, l’altro in Spagna. Si sono contesi popolarità e gol, palloni d’oro e gloria giocando nella stessa squadra, il Barcellona. E ora, una volta che un gol ha stabilito i ruoli di vincitori e sconfitti, il soccombente non ha timore di attraversare il campo non per abbracciare un suo compagno di squadra e condividere un’amarezza ma, sorprendentemente, per cercare il più forte dei suoi avversari, un vincente, e buttargli le braccia al collo. Anche lì consolazione, conforto, ma tra “nemici”: qualcosa di raro e bellissimo. Non sono stati belli, perché non rari, gli incidenti fuori dallo stadio di Wembley, i calciatori inglesi che si strappano la medaglia d’argento dal collo come fosse un insulto, i fischi all’inno italiano, l’aggressione razzista nei social ai tre giocatori neri che avevano sbagliato i rigori. L’Italia di questa domenica di luglio, un mese in cui il giorno undici vuol dire felicità, ha mostrato il suo volto migliore, quello che spesso ci dimentichiamo essere il nostro Dna. Lo ha fatto con Matteo Berrettini, un ragazzo romano, del quale, oltre alle infinite doti tennistiche, andrebbero celebrate l’intelligenza, l’educazione, la misura nel rapporto con i media. E poi con una nazionale che, per dirla con Spinazzola, è stata “una famiglia”.

Si capiva che i ragazzi si divertivano insieme, che si sentivano parte di una comunità, che si aiutavano l’un con l’altro. Forse il capolavoro di Mancini sta proprio qui. Nell’aver costruito, come fece Bearzot, un gruppo omogeneo, coeso, allegro. Mi risulta che per volere di Vialli ai ragazzi che arrivano per la prima convocazione a Coverciano viene consegnato un libro che sulla copertina, una maglia e uno scudetto tricolore, ha impresso il titolo: “Azzurro”. La pagina che introduce una raccolta di magnifiche dichiarazioni dei campioni della storia della nazionale ha un’epigrafe apodittica e fulminante: “Squadre azzurre. Niente teste di cazzo”. Non uno dei ragazzi di questo torneo, fosse titolare o riserva, in panchina o in tribuna, è venuto meno a questo comandamento. I meravigliosi abbracci che, speriamo senza conseguenze sanitarie, ci siamo scambiati domenica notte non sono frutto del caso. Ci sono dietro tanto lavoro, tanto talento, tanta competenza, tanta buona organizzazione, tanta tenacia, tanta esperienza. Tutte qualità che, nel tempo discolo e fesso che abbiamo vissuto, sono state considerate desuete o inutili. Se in milioni abbiamo potuto dire “Abbiamo vinto”, per qualcosa che personalmente avevamo solo seguito con passione da lontano, è perché ritrovare quelle qualità ci ha coinvolto, reso parte, fatto sentire una comunità. Ci ha fatto commuovere, abbracciare, piangere per una cosa bambina e importante come il gioco.
Un intellettuale sudamericano che ho conosciuto e molto amato, Eduardo Galeano, ha scritto un volume bellissimo che si chiama proprio “Il libro degli abbracci”. Dice: “Non ho un dio. Se lo avessi, gli chiederei di non farmi arrivare alla morte. Non ancora. Ho ancora molto da camminare. Ci sono lune alle quali non ho ancora abbaiato, e soli che non mi hanno ancora acceso. Non mi sono ancora immerso in tutti i mari, che a quanto si dice sono sette, né in tutti i fiumi del Paradiso, che dicono siano quattro. A Montevideo c’è un bambino che spiega: «Io non voglio morire mai, perché voglio giocare sempre».

CORRIERE.IT

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