Come si cambia
MATTIA FELTRI
Quelle dei Mondiali del ’90 furono notti magiche ma anche un po’ fetide. Chi ha memoria ricorderà i fischi dello Stadio Olimpico all’inno argentino, fino a subissarlo. La squadra di Diego Maradona portava la colpa d’averci eliminati (ai rigori, capita) e Dieguito, che da quasi un decennio elevava al divino il calcio italiano, se ne sentì stuprato. Leggemmo il labiale sul volto livido: «Hijos de puta», figli di puttana. Ma siccome si cambia, e si cambia pure in meglio, in questi Europei, nelle tre partite giocate all’Olimpico dagli azzurri, durante gli inni degli avversari non è volata una mosca. Il nostro è invece stato fischiato l’altra sera a Wembley, e probabilmente è vero, fra scorrettezze dei supporter, compresi i raggi laser puntati sugli occhi dei portieri rivali, e dei giocatori, molto attrezzati in fatto di simulazioni e proteste, gli inglesi si scoprono splendidamente europei, quasi italiani, proprio ora che la Brexit è compiuta. Del resto, senza l’eroica resistenza al nazismo nella seconda guerra mondiale, e senza l’incoraggiamento di Winston Churchill subito dopo, l’Unione europea forse non sarebbe mai nata.
L’Europa ce l’hanno addosso più di quanto credano e più di quanto dica la geografia. Però, a proposito di inni fischiati, c’è un ultimo episodio da raccontare. Solo cinque anni fa a Bari si giocò Italia-Francia, e parve giusto fischiare la Marsigliese. Il nostro capitano, Gigi Buffon, non si diede per vinto e cominciò ad applaudire, seguito dai compagni di squadra e rapidamente dal pubblico migliore, finché lo stadio non coprì i fischi. Certe volte basta così poco per non arrendersi ai peggiori.
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