Bisogna saper perdere
I quali durante la partita si sono comportati nella media del calcio: qualche tuffo, qualche fallo, qualche recriminazione. Né più né meno della squadra italiana. Poi, durante la premiazione hanno sbracato. Qualche volta si vince e qualche volta si perde e quando si perde bisogna farlo con classe. Soprattutto perché quei giocatori che uno dopo l’altro si sfilavano dal collo la medaglia del secondo classificato – cupi, offesi di essere stati sconfitti sul proprio campo – in quel momento rappresentavano la loro nazione, e non un club o l’altro. Nazione che infatti, in parte, ha reagito secondo le indicazioni ricevute. Abbiamo perso la guerra, non è giusto, non potremmo mai accettarlo e dunque spacchiamo tutto. Queste sono le indicazioni simboliche che i tifosi hanno visto. I quali – questo non è uno sport per signorine, direbbe Nanni Moretti – erano reduci dall’aver fischiato l’inno nazionale italiano, l’uscita dal campo di Chiesa azzoppato in uno scontro, e soprattutto i poveri Marcus Rashford, Bukayo Saka e Jadon Sancho che non hanno segnato i loro rigori. Tre calciatori neri, sfortunatamente. Per cui l’aggressione si è trasformata in un linciaggio razziale. È orribile, ma prima di tutto ridicolo. Così i reali inglesi e i calciatori si sono dovuti schierare, tentando di arginare questa pazzesca e insensata ondata di razzismo. Hanno rilasciato dichiarazioni, chiesto razionalità, calma, ribadendo che si tratta soltanto di una partita di calcio. Forse è un po’ tardi. Per essere chiari: se vuoi dare l’idea che si tratta soltanto di un gioco, devi fare quello che ha fatto l’allenatore della Spagna, Luis Enrique. Ridere, abbracciare gli avversari, alleggerire la tensione. Non il giorno dopo, ma subito, appena finita la partita. La partita, non la guerra. —
LA STAMPA
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