Il metodo Draghi e l’arte di mediare
Marco Follini
Caro direttore, c’è il metodo Kominsky, e c’è il metodo Draghi. Michael Douglas, in una delle più belle serie televisive degli ultimi anni, insegna la pedagogia della recitazione confidando che l’esplicito sia un po’ la chiave di tutto e che il racconto contenga la soluzione di ogni problema. Il nostro presidente del Consiglio, invece, si affida piuttosto alla pedagogia dell’implicito, se non addirittura a quella del silenzio, per cercare di risolvere i problemi e dirimere i conflitti.
L’attitudine di Draghi a decidere senza lasciarsi intrappolare né in troppe discussioni né (apparentemente) in troppe mediazioni induce a pensare che il premier, pur con le sue buone maniere, sia per l’appunto quello che si dice un “decisionista”. Tanto più indotto a rivestire questi panni quanto più i partiti si rivelano a loro volta vittime delle loro molteplici indecisioni. La gestione delle più recenti nomine avvalora questa leggenda e fa piovere su Palazzo Chigi e sul suo inquilino alcune critiche che forse egli non merita e alcuni consensi che magari egli non apprezza.
Il punto è che questo ritratto di Draghi, che comincia ormai ad andare per la maggiore, non è così veritiero come può sembrare. Non fosse altro che per il fatto che questo suo “decisionismo” non è quasi mai univoco. Una volta infatti egli sceglie dando ragione agli uni, la volta dopo sceglie dando ragione agli altri. Così da guadagnarsi a giorni alterni l’applauso e il dissenso di pezzi variabili della sua popolosa maggioranza. Ma appunto per questo si può dire invece che Draghi sia piuttosto il mediatore, colui che sbrogliando per suo conto alcuni nodi libera le forze politiche dal viluppo delle loro incertezze e delle loro indecisioni. A patto, s’intende, che esse siano poi capaci di cogliere l’occasione per rimettersi finalmente a nuovo. Cosa sulla quale è lecito nutrire qualche dubbio, assieme a qualche aspettativa più speranzosa.
Fatto è che ogni volta che il premier sembra aver forzato la mano al sistema politico, egli ha piuttosto evitato che il sistema si impallasse e che i partiti finissero per litigare senza avere davvero l’intenzione di farlo, né forse l’idea di come farlo. Insomma, egli sembra aver imparato l’arte di mediare tra le indeterminatezze altrui. Infilzando i “suoi” partiti con intento non troppo ostile, scontentandoli in modi quasi scientificamente paritari e facendo in modo che infine resti nel loro animo politico, a dispetto di qualche temporaneo rammarico, una contentezza almeno parziale.
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