Il vaccino psicologico
A volte la retorica è stucchevole e spesso in queste occasioni si spreca, ma la serata magica di domenica, in cui gli Azzurri hanno espugnato Wembley dimostrando che l’Italian job è superiore allo stile inglese che ha perso il fascino di una volta e l’etichetta (il primo ministro Boris Johnson ha dovuto chiedere scusa per gli insulti razzisti dei suoi connazionali), resterà negli annali. E non solo come un fatto sportivo. Sarebbe riduttivo e sbagliato interpretarlo così.
Ci sono dei momenti nella Storia, infatti, in cui un avvenimento agonistico, un’immagine trionfale o un singolo gesto atletico segnano un’epoca. Ciò che è accaduto a Londra e, contemporaneamente, sulle strade d’Italia nel momento in cui Donnarumma si è esaltato parando il rigore di Bukayo Saka (con l’83,5% degli italiani bloccati davanti alle tv, se si somma lo share di Rai e di Sky), ha segnato la fine di un incubo. È saltato il tappo delle nostre ansie e paure, abbiamo ritrovato il coraggio e ci siamo sentiti – questo è il dato più importante – nuovamente liberi. Liberi di festeggiare, di sognare, di rischiare, di scommettere sul futuro e su di noi, perché la Nazionale di calcio ha dimostrato – è stato il «sentiment» di quel momento – che nulla è impossibile, nessun traguardo è irraggiungibile.
Era la medicina, o meglio il vaccino «psicologico», che ci voleva per scacciare via quella sensazione di impotenza che ci ha lasciato addosso il virus. Tant’è che al netto degli episodi di violenza che hanno caratterizzato i festeggiamenti (da condannare senza attenuanti), delle ripercussioni che avremo nell’indice di contagio per l’incoscienza di molti (troppi) che hanno già riposto nel cassetto la mascherina anche nelle occasioni particolari, c’è stato un impulso, un moto collettivo che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere per strada.
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