La democrazia calpestata nelle carceri
MASSIMO GIANNINI
Il 21 luglio 2001 la “macelleria messicana” alla Diaz. Vent’anni dopo, la “orribile mattanza” a Santa Maria Capua Vetere. Oggi come allora, la violenza di Stato resta la ferita più profonda inferta al cuore della democrazia. Per un macabro scherzo della Storia, lo scandalo delle violenze nelle carceri italiane deflagra negli stessi giorni in cui ricordiamo una pagina nera della nostra Repubblica. Il G8 di Genova resta “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda Guerra Mondiale”, come la definì Amnesty International. Fatte le debite proporzioni, scopriamo adesso che dietro le sbarre di un abisso concentrazionario sul quale rifiutiamo colpevolmente di affacciarci c’è stata un’altra “sospensione dei diritti democratici”. Certo, meno cruenta. Ma non meno grave.
La “scena del crimine” è sempre uguale: agenti in divisa, protetti da caschi e armati di manganelli, che si accaniscono su corpi inermi e indifesi. Allora erano manifestanti, oggi sono detenuti: la sostanza non cambia. Anche la “strategia difensiva” è sempre uguale: depistaggi e prove artefatte. Allora erano mazze ferrate e bombe molotov, oggi sono bastoni e biglie di olio bollente: di nuovo, la sostanza non cambia. Non cambia a Genova, a Santa Maria Capua Vetere e nelle altre patrie galere, dal Sant’Anna di Modena al Dozza di Bologna. E anche al Lorusso-Cutugno di Torino, dove la Procura ha concluso l’inchiesta sulle decine di violenze denunciate dai prigionieri, e dove è possibile che nei prossimi giorni si arrivi al rinvio a giudizio dei 25 indagati, tra i quali il direttore dell’Istituto e il responsabile delle guardie carcerarie. “Tortura”, potrebbe essere l’ipotesi di reato.
I numeri li conosciamo. Le carceri italiane sono le più sovraffollate della Ue: 120 detenuti per ogni 100 posti disponibili. Abbiamo 53.661 reclusi rispetto a una capienza di 47.445. Di questi, 16.362 sono in attesa di sentenza definitiva, 15 mila hanno da scontare un residuo di pena inferiore ai tre anni e 1.212 hanno condanne inferiori ad un anno. Più di 2 mila lavorano per imprese e coop sociali, meno di 15 mila fanno lavoretti di pulizia e cucina in carcere. Solo in 20.263 frequentano un corso scolastico. Il 48% delle celle non ha doccia, il 30% non ha acqua calda, il 9% non ha riscaldamento. I suicidi in cella hanno raggiunto il record: 61 l’anno scorso. Ma quello che non abbiamo voglia di conoscere è l’inferno che si nasconde dietro i numeri. Quello che non abbiamo voglia di capire è tutto ciò che succede in quelle bolge dantesche, dove “il sole del buon dio non dà i suoi raggi”, come cantava il poeta De Andrè.
Dove “i diritti democratici” non sono sospesi, ma calpestati. Dove non ha spazio la Costituzione che all’articolo 27 dice “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I filmati di questi giorni fanno paura: violenza burocratizzata, pestaggi eseguiti come fossero adempimenti. Come ai tempi di Stefano Cucchi. A noi cittadini, in fondo, sta bene così. Un po’ è “benaltrismo”: siamo presi da problemi più gravi, il vaccino da fare e il mutuo da pagare, il lavoro che manca e la scuola che arranca. Un po’ è lo “Zeitgeist”: sono colpevoli? Tanto basta, li rinchiudiamo e “buttiamo la chiave”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase moralmente oscena, anche da cinici capipartito che oggi risciacquano i panni del populismo giudiziario nel fiume del garantismo referendario.
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