La democrazia calpestata nelle carceri

E invece il carcere ci riguarda. Perché proprio dal modo in cui tratta le persone che hanno sbagliato si misura il grado di civiltà di una nazione. Dal processo a Gesù a Norimberga, dalla Magna Charta alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo: la cultura dell’Occidente riposa sulla forza del diritto, non sul diritto della forza. L’Habeas Corpus del 1215 parla ancora per noi: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, privato della sua indipendenza, della sua libertà, dei suoi diritti, messo fuori legge, esiliato, molestato in alcuna maniera, e non metteremo né faremo mettere le mani su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo le leggi del paese”. Per me il paradigma di grandezza della nostra civiltà rimane custodita in un’altra tragedia, di cui in questi giorni ricordiamo il decennale: la strage di Utoya. A compierla è Anders Breivik, che il 22 luglio 2011 massacra 69 studenti. Un anno dopo, il 22 giugno 2012, i tg immortalano quel “mostro” nell’aula del tribunale di Oslo: circondato dai poliziotti, vestito da Cavaliere dei Templari, fa il saluto nazista mentre ascolta il suo giudice che lo condanna a 21 anni. L’immagine è ripugnante, ma anche potente: certifica la forza dello Stato, che ne detiene il monopolio in base alla legge e dunque la esercita. Senza abusarne. Mai.

È di questo Stato che abbiamo bisogno. Per questo anche Draghi e Cartabia che visitano le celle del “Francesco Uccella”, il “carcere della vergogna”, ci restituiscono un’immagine forte. Come forte è il messaggio che lanciano: il governo non intende dimenticare quello che è successo, non può esserci giustizia dove c’è abuso, non può esserci rieducazione dove c’è sopruso, le indagini stabiliranno le responsabilità individuali ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Sono parole importanti. Ma solo a patto che si trasformino in fatti. Quello che serve lo ha spiegato Vladimiro Zagrebelski sul nostro giornale: ricorso più massiccio alle pene alternative, regime delle “celle aperte” da ricalibrare, percorsi di “risocializzazione” da rafforzare.

C’è bisogno di una maggiore presenza della politica. I 102 milioni stanziati per le carceri dal Pnr sono una goccia nel mare. Occorre uno sforzo molto più massiccio, in termini finanziari e normativi. “Le nostre prigioni” devono diventare una priorità: Marta Cartabia, sensibile al tema già da presidente della Consulta, ha una buona occasione per passare dalla dottrina giuridica all’azione pratica. Ma c’è bisogno anche di una maggiore coscienza nell’opinione pubblica. Da un sistema carcerario più giusto e più dignitoso l’intera collettività ha tutto da guadagnare. Su questo occorre un grande lavoro culturale, che la Corte costituzionale ha meritoriamente iniziato a fare anche nelle scuole. Bisogna insistere. E spiegare ai cittadini quello che una ricerca di Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese dell’Einaudi Institute for Economics Finance ha già dimostrato. E cioè che un carcere “aperto”, che realizzi il mandato costituzionale sulla rieducazione del detenuto rispettandone dignità e diritti fondamentali, riduce di quasi il 10% la “recidiva”, cioè il rischio che il reo, scontata la pena, torni a delinquere. Fa fede il carcere di Bollate: zero sovraffollamento, celle aperte tutto il giorno, piani di lavoro, studio, formazione, sport e graduale reinserimento in società grazie ai benefici per i meritevoli. Se questo modello diventasse “sistema”, considerato che annualmente entrano 9 mila detenuti e la metà è già recidivo, in prospettiva la popolazione carceraria diminuirebbe di 900 persone l’anno. Persone sottratte al crimine. Persone recuperate alla vita. Non è una posta in gioco sufficiente, per la nostra democrazia?

LA STAMPA

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