Quelle piccole bandiere piantate in giro dai partiti
Per quante tempeste le forze politiche provino a sollevare, ora non hanno vento nelle vele; ma con il tempo queste tattiche potrebbero produrre danni seri
Che cosa può spingere un segretario di partito come Salvini a indicare per quali fasce di età è adatto il vaccino, concludendo che agli under 40 «non serve»? Che cosa può indurre un ex premier come Conte a paventare la morte del processo per il crollo del Ponte Morandi se venisse modificata una legge del suo governo, quando quel processo non c’entra niente perché i fatti sono precedenti?
Diciamoci la verità: in questa inquietante estate, a metà del guado tra il Covid di ieri e quello di domani, i partiti non stanno dando uno spettacolo di serietà. E questo avviene innanzitutto perché pretendono troppo da se stessi. Immaginano di poter — o di dover — svolgere una funzione etica, un ruolo di guida morale delle persone e del Paese. Per questo sollecitano costantemente l’indignazione a basso costo, evocano valori supremi come la Libertà e la Giustizia per piccole battaglie di piccolo cabotaggio, si arrogano competenze che non hanno. È un antico vizio italiano; di un Paese che, forse per la sua eredità storica di inventore del totalitarismo nel Novecento, ètotus politicus, in cui cioè la politica ha troppo peso, s’impiccia di tutto, e presume di poter raddrizzare con la forza delle ideologie il legno storto dell’umanità. Ma così facendo i partiti finiscono per collezionare brutte figure, implicitamente rivelando essi stessi la loro scarsa rilevanza.
Hanno infatti voglia a piantare bandierine: il fronte della battaglia si sposta di continuo travolgendole, e il governo procede sulla sua strada con un’agenda che è quasi obbligata, oltre che sensata. Anzi, alzando in parallelo una bandierina di destra e una di sinistra rendono perfino più facile per Draghi fare lo slalom, senza scontentare nessuno, e puntare così al traguardo sia del «green pass» sia della «riforma Cartabia».
È una strana situazione: Calvino l’avrebbe chiamata la «grande bonaccia delle Antille». Per quante tempeste i partiti provino a sollevare, non hanno vento nelle vele; e la nave del governo appare stabile perché senza alternative, e perché nessuno dei politici che lo sostengono ha il benché minimo interesse ad affondarla per dover poi nuotare da solo in mare aperto, affrontando le elezioni.
Però, allo stesso tempo, non è una buona situazione. E non solo perché la goccia scava la roccia e a furia di creare tensioni e diversivi il governo può essere rallentato se non fermato, o piano piano svuotato della carica riformista di cui l’Italia avrà tra breve molto bisogno per riaprire le scuole e non far chiudere le fabbriche. Questa fibrillazione è negativa anche perché conferma e rafforza un serio dubbio sulla credibilità di entrambe le coalizioni politiche. Viene da chiedersi (qualcuno all’estero già se lo chiede): sarebbero capaci, sarebbero pronte per governare, il giorno che l’attuale stato di eccezione finirà? Perché se si comportano così mentre c’è ancora il governo Draghi, se per marcare il loro territorio arrivano a smentire o mettere in ombra il lavoro dei loro stessi ministri, che faranno il giorno che si riprendessero il controllo del potere (e delle nomine)? Basta del resto vedere quello che sta accadendo al disegno di legge Zan: sull’unica questione per la quale il governo è estraneo e neutrale, scontro, caos e quasi certo rinvio.
Ma il piano di Recovery non si può rinviare, gli investimenti arrivano fino al 2026. Il timore di quello che potrebbe accadere da qui ad allora se si tornasse alla politica di prima deve essere una delle ragioni per cui le scommesse su Draghi al Quirinale sono in calo: meglio tenerselo dove sta.
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