Draghi non concede sponde ai partiti, la priorità è la stabilità del sistema

Carlo Bertini

ROMA. Se è vero che a Siena i capibastone del Pd sono terrorizzati; se è vero che la Lega stia pensando a cambiare cavallo per provare a disarcionare Enrico Letta in quel collegio; se è vero che lo stesso Letta aprirà lì un comitato elettorale permanente e che il Parlamento ribolle con richieste di ogni tipo al governo, dalle parti del premier e del ministro dell’Economia si coglie un affanno di altra natura: quello indotto dai dossier e dai numeri tiranni, che comandano le scelte cruciali.

Non è certo nata oggi la crisi del Monte Paschi, l’ultimo stress test la colloca in coda alla classifica Ue: non c’è da stupirsi quindi se Mario Draghi, anche vista la sua storia alla Bce, intende trattare una vicenda che ha un impatto sistemico sul mondo bancario con le lenti dell’economia e non con quelle della politica. «Al premier sta a cuore mettere in sicurezza il sistema bancario, anche per gli effetti sulla solidità delle imprese», dice uno dei suoi consiglieri.

Niente favoritismi al Pd
Con la premessa che sulle questioni finanziarie Mario Draghi tende a tenersi in disparte anche per il suo passato e che la barra del timone la tiene il Tesoro, il premier non intende di qui ai prossimi mesi (visto che la faccenda andrà per le lunghe) dare l’impressione di offrire un sostegno al Pd e ai suoi problemi elettorali. Non solo – spiegano fonti vicine al dossier – per non essere accusato di favoritismi dalla Lega, che è già sulle barricate, ma per una seconda ragione ancora più cogente: che le ragioni dell’economia in questo caso sovrastano quelle della politica. Per questo il presidente del Consiglio – questa la notizia raccolta in ambienti di governo – non userà occhi di riguardo per questa o quella richiesta dei partiti, che si affannano a battere i pugni sul tavolo. Tradotto: i problemi di Letta sono un fattore secondario, che non può influenzare alcuna decisione, così come l’esigenza di Salvini di fare più uno con il controcanto sui paletti da fissare. «Mps – spiega una autorevole fonte di governo – è un intermediario finanziario di rilevanza sistemica, idem Unicredit. Ci sono precisi accordi che nel 2016 vennero presi e precise condizioni che vanno soddisfatte: in questi casi la politica deve fare un passo indietro, le decisioni guardano alla stabilità finanziaria e agli impatti di mercato, qualunque rumors inappropriato può solo complicare le cose».

Esuberi e prepensionamenti
Dal governo in queste ore sono state date «rassicurazioni formali e informali» a tutti i partiti sui tre punti centrali: sul personale, perché i numeri letti fin qui sono un terno al lotto. C’è un impegno del Mef e del governo a limitare quanto più possibile il numero di esuberi, il che vuol dire fare in modo che non sia uno spezzatino ma che Unicredit si prenda la maggior parte possibile degli asset. Non i crediti deteriorati e il contenzioso ma per tutto il resto si spingerà per fare in modo che si prenda la maggior quota possibile. E se i sindacati sono preoccupati per i livelli occupazionali, è vero pure che in quell’istituto «c’è un costo del lavoro elevatissimo», anche dovuto ad un fattore generazionale, spiegano i tecnici.

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