Il gigante buono contro tutte le guerre: “Me ne vado via felice, ricordatevelo”
MASSIMO GIANNINI
Il Gigante Buono se n’è andato. Quando penso a Gino Strada, a tutto quello che è stato, a tutto quello che ha fatto, non mi vengono in mente che queste due parole. Il Gigante Buono se n’è andato in questo agosto di fuoco, mentre si riposava in Normandia insieme a Simonetta, per una vita la sua assistente, da un mese anche sua moglie. Ho i brividi, a pensare che la nostra ultima telefonata è stata solo l’altroieri sera. L’Afghanistan è di nuovo in fiamme, la «tomba degli eserciti», dopo quello inglese e quello russo, sta seppellendo anche quello americano (e un po’ anche quello italiano), mentre i Taleban lo stanno riconquistando dopo vent’anni di battaglie inutili.
L’avevo chiamato per questo: chi meglio di Gino, che in quello spicchio di mondo ci ha vissuto sette anni, ci ha costruito due ospedali, ci ha curato centinaia di migliaia di feriti, può raccontare cos’è quel Paese, quanto noi occidentali abbiamo sbagliato, cosa stiamo perdendo laggiù? E lui mi aveva risposto, come sempre, anche se era in vacanza. E come sempre aveva detto «sì, te lo scrivo», anche se era convalescente dall’ennesimo intervento cardiaco. Mai avrei potuto immaginare che quella sarebbe stata la nostra ultima telefonata. E che quello che mi aveva mandato a tarda sera sarebbe stato il suo ultimo articolo. Quasi il suo testamento morale: contro la guerra, contro la violenza, contro l’odio.
Gino era un gigante. Non per il fisico, per quanto il suo sguardo fosse severo, la sua barba fosse ispida, il suo tono fosse grave. Quanto per la personalità: la sua passione civile, la sua forza etica, la sua tempra morale. Ed era buono. Perché, mentre lo curava nel corpo, guardava dentro all’anima dell’uomo. Per cercare e scambiare tutto il bene possibile, senza finzioni e senza mediazioni. Se non lo conoscevi, non potevi capirlo né saperlo, ma era così. E io lo conoscevo, ormai da diversi anni. La prima volta ai tempi del rapimento in Iraq di Daniele Mastrogiacomo, amico e collega di Repubblica. Ebbe allora un ruolo discusso, per alcuni addirittura ambiguo. Io so solo che senza il suo intervento con i «tagliagole» (perché sì, piaccia o no lui curava pure quelli) oggi Daniele non sarebbe più tra noi. Da allora siamo diventati amici. Ho seguito le attività e partecipato agli eventi di Emergency: un «popolo» incredibile e instancabile. Due anni fa mi aveva convinto a seguirlo: «Vieni con noi una settimana, andiamo all’ospedale di Kabul e poi sulle montagne, in quello di Lashkar-Gah. Ti resteranno nel cuore…». Avevo già la valigia pronta, quando esplose la bomba devastante nel quartiere delle ambasciate, e lui insieme a Simonetta mi chiamò rassegnato. «Mi dispiace, i nostri da Kabul sconsigliano il viaggio, è troppo pericoloso». Ho ancora qui con me, dentro il passaporto, il visto che allora mi consegnò lui stesso, per entrare in Afghanistan. Una piccola reliquia, che mi conserverò.
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