L’11 settembre: i sintomi del declino americano
di Antonio Polito
L’ultimo soldato sovietico, il generale Boris Gromov, lasciò l’Afghanistan il 15 febbraio del 1989. Il Muro di Berlino cadde nel novembre, nove mesi dopo. L’Urss si dissolse nel Natale del 1991. L’impero comunista non sopravvisse alla sconfitta a Kabul. La fine dell’impero britannico — ha ricordato di recente lo storico Niall Ferguson — cominciò dopo una crisi finanziaria e una disastrosa pandemia, l’influenza spagnola del 1918-19. Gli Stati Uniti, in un lasso di tempo paragonabile, hanno conosciuto l’una e l’altra.
Impressionanti paralleli storici stanno rilanciando in queste settimane le profezie del «declino americano». Molti credono che il Duemila non sarà, come è stato il Novecento, il «secolo americano». D’altra parte tutti gli imperi prima o poi finiscono, non foss’altro che per il loro «overstretch», per essersi cioè allungati troppo, senza avere più le risorse economiche e militari sufficienti a controllare la vasta area del mondo su cui estendono i propri interessi. Dal punto di vista militare l’America non ha ancora rivali; ma i suoi soldati, a centinaia di migliaia, sono presenti in 150 Paesi. Dal punto di vista economico la crisi del 2007-08 ha convinto la Cina e il mondo che il re è nudo: il turbo-capitalismo anglosassone, fino ad allora imitato ovunque (anche a Pechino), non è inarrestabile, e anzi può esportare le sue crisi. I sintomi del declino insomma ci sono. Ma verrebbe da dire: ai posteri l’ardua sentenza.
Più che le sorti degli Usa, infatti, a noi europei devono interessare le sorti del mondo che verrà «dopo» gli Usa. La vera domanda che ci riguarda non è se stiamo assistendo alla caduta dell’impero americano preconizzata da Paul Kennedy già alla fine degli anni ‘80, cosa sulla quale è più che lecito avere dubbi. Ma piuttosto se l’America sia ancora la «nazione indispensabile». Se cioè il mondo possa sperare in un ordine sostanzialmente pacifico e prospero, e allo stesso tempo caratterizzato dall’espansione della libertà, dei diritti umani e della democrazia, senza la guida degli Stati Uniti. Anche su questo è lecito dubitare.
Fu Madeleine Albright, forse l’ultima grande Segretaria di Stato americana, a usare la definizione di «nazione indispensabile», a ridosso dell’ultima occasione in cui gli Usa hanno accettato di fare «la guerra degli altri»: l’intervento del 1999 contro la Serbia e a difesa del Kosovo. Era l’idea degli Stati Uniti garanti della stabilità internazionale, in quanto unica superpotenza rimasta. Ma era anche una riformulazione del principio dell’«eccezionalismo americano», la convinzione cioè che quella nazione abbia un dovere speciale nei confronti del mondo intero, perché speciali sono i valori che rappresenta. Questa teoria è stata spesso interpretata come una mera manifestazione di imperialismo. Eppure il sentimento di avere una missione universale ha accomunato nella storia tutte le nazioni nate da una rivoluzione: dall’Urss, alla Francia, alla Gran Bretagna.
Da allora, forse proprio in seguito all’11 settembre, gli Stati Uniti hanno proceduto a una selezione sempre più stretta del loro interesse nazionale. Le due guerre in Afghanistan e in Iraq si sono rivelate «guerre americane», per quanto rivestite di motivi morali e di impegni di «nation building». Già da Obama, poi con più rozzezza da Trump, e infine con sorprendente sincerità da Biden, è arrivato il messaggio che l’America si ritirava dai campi di battaglia dove riteneva di aver raggiunto il suo scopo primario. Prendere Bin Laden e distruggere Al Qaeda in Afghanistan. Esternalizzare lo scontro con il fondamentalismo islamico in Iraq. Portare cioè il terreno della battaglia lontano dal suolo nazionale, accettando di perdere soldati per salvare civili. In fin dei conti di questo si è trattato. Ora lo scambio non è più necessario, da vent’anni il terrorismo non colpisce più in America, e dunque si torna a casa.
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