Una Lega in confusione tra felpa e governo
I risultati sono inquietanti. Prendiamo Milano, la «capitale morale», e comunque la capitale del moderatismo italiano dai tempi della «maggioranza silenziosa». In questa città-cardine di ogni strategia politica nazionale, Salvini è impegnato in un furioso testa a testa con la lista della Meloni, e pare che l’unico interesse dei due sia stabilire chi prende un voto in più, senza badare molto alle sorti di un candidato sindaco per caso, dato per perso forse già al momento della scelta. Tutto ciò ha un senso?
Eppure è proprio alla «maggioranza silenziosa» che bisognerebbe guardare per darsi una bussola. Essa è infatti stata, nel bene e nel male, la benzina della formidabile ascesa della Lega. Il partito raggiunse il suo consenso massimo mentre era al governo con Conte, non quando era all’opposizione. E ci riuscì radicalizzando politiche che parlavano ai moderati, come il contrasto all’immigrazione clandestina. Fu del resto con un’analoga motivazione che la Lega entrò nel governo Draghi: per contribuire alla gestione della ripresa economica e dell’uscita dalla pandemia, le uniche cose che interessino oggi davvero agli italiani.
Il green pass, più o meno spinto, fa parte degli strumenti inevitabili di quel programma di governo. Che senso ha trasformarlo in una bandiera ideologica, quando i due terzi degli elettori leghisti, adulti e vaccinati, si dichiarano favorevoli? Davvero si pensa di trarre qualche beneficio elettorale da piccole «minoranze rumorose», che in ogni caso non si contentano certo dei sei ordini del giorno esibiti dalla Lega come frutto della sua agitazione parlamentare?
Quando Zaia (73% di over 12 vaccinati in Veneto) dichiara al Corriere che in materia «la linea è quella dei governatori», esprime qualcosa di più di un dissenso, quasi una «linea rossa» che Salvini non può varcare, pena la messa in discussione della sua stessa leadership. E il fatto che nei sondaggi Forza Italia, fermamente schierata a favore delle politiche del governo, sia di recente l’unica a crescere nel centrodestra, qualcosa vorrà pur dire.
Intendiamoci: la Lega non è l’unico epicentro di quella vera e propria crisi esistenziale della politica che il governo Draghi sta mettendo in luce. La divaricazione sempre più frequente tra il sostegno a un partito e il consenso ai suoi programmi riguarda anche le altre forze maggiori, come Fratelli d’Italia e il Pd. Gli elettori sembrano distinguere sempre più nettamente tra «politics» (la politica dei partiti) e «policies» (le politiche pubbliche decise dal governo), come se le seconde non dipendessero più in alcun modo dalla prima, tanto a Palazzo Chigi c’è chi ci pensa.
Però alla lunga non può durare. Non può reggere all’infinito una situazione in cui il partito più forte del momento (Cinquestelle ieri, Lega oggi) è diviso, costantemente incerto, a volte inaffidabile, e trasferisce le proprie nevrosi sull’azione di governo. Non si può stare al governo giocando a fare l’opposizione.
Non può farlo un partito come la Lega, che ha ormai una lunga e responsabile esperienza di amministrazione locale e quadri dirigenti apprezzati dall’elettorato per il loro pragmatismo. E soprattutto non può farlo il leader ricorrendo alla stessa formula che ebbe successo prima della pandemia. Perché tutto, ma proprio tutto è cambiato; e chi non lo capisce rischia di non avere un grande futuro.
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