“I giudici non decidano la politica giudiziaria: devono soltanto punire e non riscrivere la storia”
«Ero appena diventato magistrato». Luciano Violante fa un salto all’indietro nel tempo, agli anni in cui indossava la toga. «Condannammo un tizio a 7 anni. E io chiesi agli altri autorevoli colleghi: Ma sette anni di che cosa?».
Onorevole Violante, cosa le dissero gli altri magistrati?
«Mi guardarono più o meno come un marziano. Ma io avevo fatto il volontario nelle carceri, conoscevo il sistema e intendevo dire una cosa elementare: sette anni di pena possono essere faticosi ma sopportabili, oppure drammatici, quasi insostenibili se per esempio finisci nella prigione dove le celle sono sovraffollata e manca l’acqua corrente. Ecco, io credo che nella magistratura, di cui ho fatto parte fino al 1981 quando mi sono dimesso perché ero diventato parlamentare, manchi talvolta questa attenzione agli altri, a tutti gli altri».
Attenzione agli imputati?
«A tutti. Agli imputati. Agli avvocati. Ai testimoni. Se posso usare una parola semplice e profonda, direi che a volte manca il rispetto».
Un pizzico di umanità?
«Si. D’altra parte il modello architettonico…»
Architettonico?
«Si. Se ci fa caso, quando entra in un tribunale lei sale le scale. Vuol dire che i giudici sono più in alto del cittadino e a volte si ergono sul piedistallo della loro superiorità, qualche volta perfino su quello dell’arroganza».
Onorevole, una volta lei era considerato il capo del presunto partito delle procure. Oggi lei bacchetta gli ex colleghi.
«Un merito che non ho. Ci sono stati tre passaggi nella storia recente della magistratura, che mostrano una evoluzione preoccupante».
Il primo?
«La difesa dell’indipendenza della magistratura, a partire dagli anni Sessanta. È stata una battaglia sacrosanta, perché il potere politico e quello economico cercavano di condizionare la magistratura. Così le toghe hanno affermato la propria autonomia rispetto agli altri poteri, ma a questo punto non ci si è più fermati».
Siamo al secondo passaggio.
«Appunto: l’autogoverno. Che non è scritto da nessuna parte, tantomeno nella Costituzione, e invece i giudici hanno cominciato a riempire tutte le caselle del Csm e del ministero e a decidere la politica giudiziaria».
La stazione successiva?
«L’autoreferenzialità».
Il parlarsi addosso?
«Il concepirsi come una parte dello Stato per la quale non valgono le regole che invece la magistratura richiede agli altri. E infatti l’approdo è quello di un corpo separato dello Stato che in qualche modo afferma: Io sono il guardiano della purezza, io sono il guardiano della trasparenza, nessuno può venire in casa mia a contestarmi qualcosa. Penso ad alcune circolari del Csm svuotative delle leggi».
Questo processo comincia con Mani pulite?
«Più che di Mani pulite parlerei di manipulitismo, di epigoni di Mani pulite. In ogni caso, questa mutazione del ruolo della magistratura nella società è avvenuta per gradi, nell’arco di decenni, ed è stata favorita dalle emergenze nazionali: la mafia, il terrorismo, la corruzione. Ventuno magistrati sono stati uccisi nel Dopoguerra, un numero che non ha paragoni in Europa. Progressivamente la politica ha lasciato il campo alla magistratura e la magistratura se lo è preso».
Luciano Violante è una delle personalità più importanti della sinistra italiana, parlamentare per molte legislature e figura di riferimento per generazioni di elettori. Ecco perché la sua riflessione colpisce ancora di più. Violante ha letto le parole di Silvio Berlusconi, pubblicate dal Giornale, sul valore del garantismo -«Perseguire o condannare un innocente – scrive il Cavaliere – è il peggior crimine che lo:stato possa commettere» – e l’intervista a Carlo Nordio; per l’ex pm veneziano occorre anzitutto separare le carriere.
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