Geopolitica del clima impazzito
È bastato un incidente negli impianti eolici siberiani, nell’estate senza vento del Mar del Nord, a mandare in tilt il sistema e a far scoppiare i prezzi. Proprio nell’autunno della ripresa post-lockdown, la caduta della produzione energetica russa ha dirottato di nuovo la domanda di energia sulle fonti tradizionali, a partire dal carbone. Gli scarsi investimenti delle multinazionali degli idrocarburi in questi ultimi dieci anni hanno fatto il resto. Ora il governo italiano tampona l’emorragia stanziando quasi 4 miliardi per alleggerire la bolletta dei cosiddetti “oneri impropri” (a partire dalla sovrattassa per le rinnovabili) e magari riducendo anche l’Iva per le categorie meno abbienti. Ma sono pannicelli caldi. Anche questo ha detto Draghi: se non si muove l’Europa, recuperando un ruolo da grande “centrale di acquisto” (riproponendo per l’energia lo schema che ha già funzionato per i vaccini) non risolveremo il problema. Nel disastro climatico e nella transizione ambientale nessuno si salva da solo.
Anche su questo versante l’Unione ha una partita cruciale da giocare. Come già accadde tra gli Anni ‘60 e gli Anni ‘90, c’è una geopolitica planetaria che si sta ridisegnando intorno alla ristrutturazione dell’industria energetica, che vede nuovamente la Cina proiettata verso l’egemonia, l’America impegnata a difendere la sua autosufficienza, e il resto del mondo in affanno e in ordine sparso. Incantati a parole da Greta Thunberg, tra il 2030 e il 2050 i governanti d’Occidente vogliono eliminare l’ossido di carbonio e puntare sull’energia pulita, cioè vento e sole, che ora coprono un fabbisogno energetico limitato al 7 per cento. C’è solo un guaio, grande come il mondo. Per ricavare elettricità da queste fonti rinnovabili servono minerali come cobalto, rame, litio, nichel e terre rare. Secondo uno studio dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, “i pannelli solari, le turbine eoliche e le auto elettriche saranno sempre più usati, e i mercati in rapida ascesa di questi minerali saranno soggetti a volatilità dei prezzi, influenze geopolitiche e interruzioni delle forniture”. Sta già succedendo.
Il rapporto Aie dice che oggi un solo Paese, la Repubblica democratica del Congo, produce più dell’80 per cento del cobalto mondiale. Argentina e Cile coprono l’80 per cento della produzione di litio. Questi tre Paesi, ai quali si aggiunge il Perù, producono oltre il 70 per cento di rame. E poi c’è la Cina. Il Dragone “sforna” il 70 per cento delle terre rare, un gruppo di 17 metalli dai nomi fantascientifici come il disprosio, il lantanio, il neodimio e il terbio, che sono tuttavia essenziali per la produzione di energia verde e per la magnetizzazione dei motori elettrici. Pechino produce direttamente scarse quantità di cobalto e nichel, ma sul mercato mondiale del minerale lavorato copre il 65 per cento del primo e il 35 per cento del secondo. Stessa cosa vale per il litio: ne produce solo l’11 per cento in forma diretta, ma nel minerale lavorato copre il 60 per cento del mercato mondiale.
Per quanto Biden si sforzi, la leadership dell’Impero del Sole sulle materie prime necessarie a gestire la transizione ambientale non sembra aggredibile. Per questo, nel nuovo disordine strategico mondiale, i dossier ambientali sono decisivi, e finiscono per sovrapporsi a quelli industriali e a quelli militari (basti pensare alla sfida lanciata nel Pacifico con l’Aukus, il patto Australia-Regno Unito-Usa sui sommergibili nucleari). Per questo a noi non resta altra via che la fatica del negoziato. Con Xi Jinping, con Putin, con Modi. Con gli autocrati che non possiamo non detestare, ma con i quali non possiamo non dialogare. Vale per la Giovane America, che cerca altrove un riscatto dalle sue ferite afghane. Ma anche stavolta vale soprattutto per la Vecchia Europa, che dovrebbe marciare e colpire unita. E che invece vaga ancora divisa, senza esercito e senza meta, tra le piaghe del nostro pianeta riarso.
LA STAMPA
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