Tridico: “È l’ora di aiutare giovani e donne con i figli, servono incentivi selettivi e salario minimo”
Quello del
salario minimo è un tema molto delicato, soprattutto per i sindacati per
i quali “i minimi” sono quelli dei contratti nazionali…
«Nei
decenni passati la contrattazione sindacale è stata uno strumento che
ha certamente favorito la crescita dell’economia e la distribuzione
della produttività. Purtroppo oggi abbiamo quasi 900 contratti e questo
genera fenomeni di vera e propria pirateria contrattuale. Se avessimo
una legge sulla rappresentanza ed una legge che consente di evitare
dumping salariale, sarei favorevole a percorrere questa strada. Il
nostro modello è molto simile a quello tedesco ed in Germania, con un
sistema di contrattazione altrettanto forte, si pensa di portare il
salario minino a 12 euro. Mentre anche Biden vuole portarlo a 15 dollari
(ovvero 13 euro), questo perché probabilmente si sono resi conto che la
frammentarietà, la poca sindacalizzazione di certi settori e
l’aziendalizzazione delle relazioni industriali avvenuta negli ultimi
20-30 anni ha causato un certo dumping salariale».
Da noi quale sarebbe un valore equilibrato?
«Se
considerassimo come soglia un valore intorno ai 9 euro lordi sarebbe
coerente con quanto suggerito da una direttiva Ue dell’anno scorso.
Molti studi provano come il salario minimo sopra una certa soglia
aumenti la produttività, perché spinge verso investimenti capital
intensive e una più efficiente allocazione del lavoro, non fa aumentare
la disoccupazione e fa diminuire il lavoro povero. Non è da trascurare
l’impatto sulla qualità della vita e la salute, in particolare dei
bambini, oltre che su un maggior gettito per la finanza pubblica».
Altre misure da mettere in campo?
«Bisognerebbe
occuparsi di giovani e donne che dovrebbero essere sempre più
incentivati nel mercato del lavoro. In questo caso gli strumenti sono
molti ma si rivolgono sempre a platee ristrette mentre occorrerebbe
alleggerire i criteri di accesso a decontribuzione donna e
decontribuzione giovani già introdotti in passato per rendere queste
misure più efficaci. E poi servirebbe più attenzione alle “giovani
madri”».
Secondo un rapporto dell’Inl nel 2021 sono state più di 42 mila le donne indotte a lasciare il lavoro dopo il parto.
«È
un problema serio, non di oggi. Lo si può risolvere attribuendo alla
lavoratrice che rientra dalla maternità 3 anni di esonero contributivo.
In questo caso l’incentivo non sarebbe legato all’assunzione ma
scatterebbe quando si rientra nella stessa azienda da cui si era presa
l’aspettativa per maternità. Maternità che diventa un requisito per
l’accesso alla decontribuzione. In questo modo si raggiunge un duplice
obiettivo: incentivare l’occupazione femminile e la natalità».
Donne con figli, può valere uno sconto anche sulla pensione?
«Nel
modello contributivo vengono già scontati 4 mesi per ogni figlio. Il
problema è che oggi sono ancora poche le donne che vanno in pensione con
il modello contributivo puro. Però, certo, all’interno di questo
modello gli elementi di flessibilità si possono anche creare così. Cito
di nuovo la Germania dove è prevista una uscita privilegiata per le
lavoratrici con figli e dove ogni figlio vale un anno di contribuzione.
Anche noi potremmo accentuare questa misura, ma – ripeto – solo
all’interno del modello contributivo».
E per i giovani cosa va fatto?
«Per
loro si può immaginare un modello simile facendo riscattare la laurea
in maniera gratuita oppure maggiorando il loro coefficiente di
trasformazione per periodi legati alla formazione, o ancora riprendendo
un’idea che prima della pandemia era molto citata ovvero introdurre la
pensione di garanzia per evitare pensioni povere, in futuro. In un
mercato del lavoro molto segmentato come il nostro le policy devono
essere mirate a categorie ben precise piuttosto che essere a pioggia.
Anche l’uscita dal lavoro ad una certa età o ad una certa quota uguale
per tutti, per tutte le professioni – come Quota 100 e formule analoghe –
non funziona bene».
E quindi adesso che finisce Quota 100 che si fa: non si prolunga, si lascia cadere?
«Forme
di flessibilità ne abbiamo diverse. La mia proposta di pensione
flessibile (e sostenibile) resta l’uscita a 63 anni col calcolo della
sola quota contributiva con l a restante quota retributiva che scatta a
67. Poi vedo che lo studio appena concluso da parte della commissione
istituita dal ministero del Lavoro, a cui anche l’Inps ha fornito un
importante contributo, va nella giusta direzione ed approfondisce il
tema delle categorie gravose a cui estendere l’Ape sociale».
Anche il reddito di cittadinanza ha bisogno di aggiustamenti? Con la ripresa non perde un po’ di importanza?
«Mi augurerei che perdesse importanza perché significherebbe che la povertà diminuisce».
L’introduzione di un reddito minimo non aiuterebbe?
«Ma l’Rdc è un reddito minimo. Un trasferimento di risorse ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito. Oltre 3 milioni di persone. È un dividendo sociale che lo Stato assicura a tutti i cittadini perché considera che sotto una certa soglia non si può vivere. È uno strumento di contrasto della povertà a cui però è necessario affiancare progetti e processi di inclusione e di formazione. I comuni e i Cpi hanno in questo un ruolo fondamentale. Perché oltre i due terzi dei percettori del reddito minimo non sono occupabili, sono minori, invalidi, e anziani. Gli altri spesso hanno bassa istruzione, neanche la licenza media ed hanno bisogno di strumenti per incrementare le loro competenze. Oggi non si tratta certo di cambiare il reddito di cittadinanza ma semmai di far funzionare tutto quello che ci sta intorno e che sino ad oggi ha oggettivamente funzionato di meno. L’Rdc va reso più inclusivo, come suggerisce anche la commissione ministeriale guidata da Chiara Saraceno, ma questo vorrebbe dire spendere di più, non spendere di meno».
LA STAMPA
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