Giustizia tortuosa, vite rovinate

Marcello Sorgi

Nell’Italia degli Anni Novanta – secondo le accuse – il premier di sette governi della Prima Repubblica Andreotti era il vero capo della mafia; il ministro siciliano e leader locale della Dc Mannino era il negoziatore di un accordo con i boss che prevedeva l’allentamento del regime di carcere duro (il 41 bis) e numerosi altri benefici per i mafiosi in prigione, in cambio dell’impegno a sospendere le stragi come quelle in cui avevano perso la vita i giudici Falcone (con la moglie), Borsellino e i componenti delle loro scorte; il fondatore e organizzatore di Forza Italia Dell’Utri, palermitano, era l’ambasciatore di Berlusconi e del gruppo di comando del centrodestra nel negoziato, proseguito da una Repubblica all’altra, con i “mammasantissima” Riina e Provenzano, che lo continuavano anche dalle loro celle. Gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni, Di Donno, del gruppo specializzato Ros, erano gli uomini di mano, che sapevano come si fanno certe cose cancellando le tracce.

A questa pesante ricostruzione (“attentato ai poteri dello Stato”) che aveva contribuito a rovinare la reputazione, già lesa da Tangentopoli, di un Paese e una classe dirigente, non certo senza difetti, ma pure senza le qualità per entrare in una specie di parodia dei film di 007, ha posto fine ieri la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che ha mandato tutti assolti. Tolti Andreotti, scomparso nel 2013, poco dopo esser stato assolto e in parte prescritto, Mannino, a cui già con rito abbreviato era stato restituito l’onore, precisando che era entrato nel mirino dei killer di Cosa Nostra per il suo impegno antimafia, e Dell’Utri, condannato in altro processo, tutti gli altri imputati hanno potuto finalmente tirare un sospiro di sollievo. Dopo più di venti anni di indagini e oltre dieci nei due gradi di giudizio, (ma resta ancora la Cassazione), le accuse e le condanne contenute in una sentenza di ben 5200 pagine non hanno retto.


Adesso le parole “trattativa Stato-mafia” non dovrebbero più essere ripetute, perché hanno perso di senso. E questo, non perché i carabinieri non fossero andati varie volte a parlare con l’ex-sindaco di Palermo Ciancimino, corleonese e per questo in buoni rapporti con l’organizzazione stragista guidata da Totò Riina “u’curtu” e da Bernardo Provenzano, morti in carcere da ergastolani, ma perché lo facevano per cercare informazioni sui latitanti più pericolosi. E fu grazie a quei colloqui se i due super capimafia furono trovati e arrestati. L’ipotesi che Mori e i suoi collaboratori si muovessero per ordine preciso del capo del governo, o di ministri, o di capi partito, in attuazione dell’accordo inconfessabile tra Stato e mafia, non è stata dimostrata. Perfino il “papello”, un foglietto sul quale i boss avrebbero annotato gli ordini che lo Stato doveva eseguire – a partire, appunto, dalla revisione del 41 bis -, si è rivelato un falso, una contraffazione.

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