L’addio di Angela Merkel, la fine di un’era irripetibile. Il pragmatismo, la sua forza e il suo limite
di Paolo Valentino, corrispondente da Berlino
In una strada centrale della capitale tedesca, nei giorni scorsi è apparso un grande cartello, di quelli che solo la creatività berlinese può concepire. Si vedono due mani posizionate a rombo, il busto senza testa di una donna stretto in un blazer verde e la scritta «Tschüss Mutti». I tedeschi si congedano dalla madre della nazione, che per quasi due decenni li ha protetti, allontanando pericoli e minacce, garantendo prosperità e sicurezza. E in quel «ciao ciao» un po’ ironico e sbarazzino non c’è solo nostalgia e gratitudine, ma anche il senso che è tempo di guardare avanti, di mettersi alle spalle un’epoca felice, ma non più sostenibile.
Dalla crisi dell’euro alla pandemia
L’età di Merkel è stata forgiata dalle crisi. Quella finanziaria del 2008 e la successiva crisi dell’euro, l’incidente nucleare di Fukushima nel 2011, l’Ucraina nel 2014, il dramma dei rifugiati nel 2015, la crisi dei rapporti transatlantici con l’elezione di Donald Trump, la pandemia e le sue devastanti conseguenze economiche. E i suoi meriti sono inconfutabili: sotto di lei, la Germania si è consolidata come la quarta economia del mondo e terza potenza esportatrice. Merkel ha modernizzato il suo partito, portandolo alla vittoria in quattro elezioni consecutive. Ha tenuto insieme l’Europa, difendendone l’integrità e i valori. Ha negoziato, praticamente da sola, l’unica fragile tregua che impedisce al conflitto tra Mosca e Kiev di degenerare. Ha tenuto testa con coraggio e autorevolezza a Trump, respingendone l’assalto scomposto al progetto europeo, all’Occidente, al multilateralismo. Non ultimo, ha infranto il tetto di cristallo che in Germania relegava le donne in ruoli tradizionali o subalterni.
Il lato oscuro della forza
Eppure, nel bilancio di Angela Merkel il confine tra successo e fallimento è spesso sottile. Non solo e non tanto perché è difficile immortalarne il lascito in un concetto definitivo e caratterizzante, al pari della Westbindung di Konrad Adenauer, della Ostpolitik di Willy Brandt o della Riunificazione di Helmut Kohl. Ma soprattutto, perché tutte le sue scelte, anche le più coraggiose e distintive, hanno sempre avuto un elemento di incompiutezza, una conseguenza negativa certo non voluta ma reale e problematica. Come se ci fosse un lato oscuro nella forza di Merkel, il limite di un pragmatismo che non riesce mai a volare, di una cautela che non vuole e non può farsi visione politica trainante.
I successi tra la Grecia e la Russia
Gli esempi? Partiamo dall’Europa. «Peccati di omissione», li chiama lo storico britannico Timothy Garton Ash. Merkel è stata l’indiscussa leader dell’Unione, che ha saputo guidare attraverso momenti fatali. Ma ogni sua scelta, ha il suo rovescio. Ha tenuto la Grecia nell’euro, salvando la moneta unica, ma lo ha fatto un minuto dopo la mezzanotte, a condizioni punitive e umilianti, che hanno aperto la strada alle forze populiste e lasciato irrisolto il nodo della solidarietà finanziaria e dell’unione monetaria incompleta. Ha accolto generosamente un milione di migranti siriani, ma non ha spiegato e preparato i tedeschi, soprattutto quelli dell’Est, all’impatto con i nuovi arrivati, aprendo il varco alla demagogia bugiarda dell’estrema destra radicale.
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