L’Europa e le ceneri di Angela
Navid Kermani, membro dell’Accademia tedesca della lingua e della poesia, aggiunge su “Die Zeit” che la Merkel incarna «un umanesimo pragmatico e senza visione»: considera questo il principale fattore di declino della politica estera e della sicurezza europea. È tutto vero. Ma se Mutti ha puntato quasi tutte le sue carte sull’economia, i numeri le danno ragione. La prova è custodita nella Bibbia del liberal-capitalismo globale, il “Financial Times”, che tracciando il bilancio dell’era merkeliana evoca un vero e proprio «Wirtshaftswunder»: il secondo Miracolo Economico della parabola postbellica tedesca. Nel 2005 la Germania era il «gigante malato d’Europa», oggi è «una superpotenza mondiale», dove il 70% della popolazione si dichiara «soddisfatta per la sua condizione economica». In sedici anni il Pil pro-capite tedesco è cresciuto il doppio di quello inglese, francese, canadese e giapponese. La manifattura tedesca contribuisce per il 40% alla produzione industriale dell’intera Eurozona. La crescita del lavoro è ai massimi nella Ue (anche se la qualità degli impieghi rimane bassa). Il tasso di occupazione femminile è il più alto tra i paesi del G7 (anche se molti contratti sono ancora part-time).
L’indole psico-politica a rinviare le decisioni (come spiega bene il libro di Alessandro Politi e Letizia Tortello, “Goodbye Merkel”, Mondadori) l’ha spinta a proiettare il suo Paese in uno specialissimo limbo, a metà tra Grande Germania e Grande Svizzera. L’eccesso estenuante della sua Realpolitik le è valso il soprannome vagamente spregiativo di “Merkiavelli”. Gli adolescenti tedeschi hanno coniato per lei un neologismo: “merkeln”, che sta per “indecisione cronica”. E tuttavia, nei tornanti cruciali della Storia, non ha avuto paura. Nell’agosto 2015, quando apre le frontiere a 800 mila profughi siriani con il celebre «Wir Schaffen Das», «ce la faremo». Nel marzo 2021, quando in pieno Covid chiede scusa in tv per il lockdown, dicendo «questo errore è tutta colpa mia». Poche settimane fa, quando in una delle sue rare comparsate nei talk show ammette «prima pensavamo: la Siria? È lontana. L’Iraq? È lontano. L’Afghanistan? È lontano. Adesso, all’improvviso, di fronte alla sofferenza di tante persone, abbiamo capito che la distanza tra noi e quella gente è ormai ridotta a nulla, e che non possiamo più distinguere tra politica interna e politica estera». Pensieri e parole da Statista. Cose marziane dalle nostre parti, dove resiste il motto di Longanesi: perché assumere una responsabilità, quando puoi più facilmente assumere un sottosegretario?
Da stasera ci chiederemo non cosa sarà di lei, ma cosa sarà di noi. Perché le legislative tedesche di oggi ci riguardano, quasi quanto le amministrative italiane della prossima settimana. Durante un aperitivo a Villa Almone, l’ambasciatore tedesco a Roma mi confidava che al dunque, chiunque vinca tra i cristiano-democratici di Laschet, i socialdemocratici di Scholz, i verdi della Baerbock, alla fine anche stavolta non cambierà poi molto, né per la Germania né per l’Europa. Probabilmente nascerà un’altra Grosse Koalition, magari persino a tre, altra innovazione in quel peculiare “laboratorio della continuità” che è la BundesRepublik. Ma ci sono scelte che incombono, e che investono il nostro modo di stare su questa terra. C’è da scegliere qual è il ruolo dell’Europa, nel nuovo disordine mondiale che vede l’America in ritirata strategica dal fronte mediorientale, la Cina in avanzata frenetica sul versante commerciale-industriale, la Russia in combinata tattica con le medie potenze regionali, dalla Turchia all’Iran. C’è da decidere come riformare il Patto di Stabilità, per non ripetere i devastanti errori della crisi greca, quando la “cura” dell’austerità costò proprio alla Merkel i manifesti che la ritraevano con i baffi di Hitler. C’è da rimediare ai disastrosi ritardi sulla lotta ai cambiamenti climatici e ai rovinosi esiti delle disuguaglianze sociali decuplicate dal Coronavirus. C’è da prosciugare il pantano nel quale sguazza il sovran-populismo, tra i neonazisti di Afd e i lepenisti del Front National.
Sono i grandi nodi che in sedici anni Mutti non ha potuto o voluto sciogliere. Toccherà al suo successore provarci, colmando il vuoto di leadership che si apre e cercando un equilibrio con quella di Draghi che si consolida, riscrivendo le coordinate dell’asse con Macron e ripensando i termini del partenariato con Putin. Una “Germania europea”, che si mette definitivamente alle spalle l’illusione di dover costruire una “Europa tedesca”, è ciò di cui abbiamo bisogno. Angela si è barcamenata dignitosamente tra queste due spinte. Chi oggi la congeda senza rimpianti, farebbe bene a rammentare che senza il suo “benign neglect” la Bce non avrebbe mai varato il Quantitative Easing e l’Italia sarebbe forse già fuori dall’euro. Chi invece ricorda i bocconi amarognoli che ha fatto ingoiare alla sua gente in nome dell’Europa e magari osserva con un pizzico di invidia i cartelloni elettorali della Cdu che inneggiano allo “Schwarze Null”, il pareggio di bilancio, non può non salutarla senza ironia, con un «grazie, signora Merkel».
LA STAMPA
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