Giorgia Meloni, “centrodestra senza leader”. Senaldi: urne e Quirinale, cosa si nasconde dietro lo sfogo
Prendere coscienza del problema è il primo passo, indispensabile, per risolverlo. Quindi in apparenza non ci sarebbe nulla di strano nell’uscita fatta ieri da Giorgia Meloni. La presidente di Fdi ha ammesso candidamente ai microfoni di Telelombardia che «il centrodestra è senza un capo perché, se c’è chi sta al governo e chi all’opposizione, è difficile avere un leader che poi decide per tutti». La politica nostrana però non è così lineare e anche la frase più banale, in bocca al capo del primo partito nei sondaggi, nasconde significati reconditi. Il primo, e più immediato, è il messaggio a Salvini: non ti riconosco più come primus inter pares della coalizione. La ragione non si limita al fatto che in questo momento Matteo sostiene Draghi e Giorgia no, e neppure risiede unicamente nella risicata percentuale di vantaggio che gli istituti demoscopici riconoscono a Fratelli d’Italia. Il dissidio è più profondo. La Meloni rimprovera al Capitano di non essere stato capace di realizzare, ma è più corretto dire di non aver voluto trovare, una sintesi delle posizioni e degli interessi politici, e di poltrone, dal Copasir alla Rai, dei tre partiti della coalizione. Gli rinfaccia, ora che le resistenze dentro Forza Italia rendono più ardua la realizzazione del progetto di federazione verde-azzurra, di aver tentato di prescindere da lei, come ai tempi in cui il leader leghista, ministro forte del governo gialloverde, inseguiva la vocazione maggioritaria del suo partito.
NELLE URNE
Dal canto suo, Salvini si ostina a non rapportarsi da pari a pari con
Fdi nei tavoli di trattativa del centrodestra, insensibile al nuovo
equilibrio nei rapporti di forza con l’elettorato. Lo infastidiscono le
posizioni della Meloni su vaccini, Covid, Europa, e i tranelli
parlamentari come la sfiducia a Speranza prima e Lamorgese poi,
interpretati in via Bellerio come quotidiane provocazioni figlie di una
strategia di guerriglia che Giorgia attuerebbe per mettere in difficoltà
l’alleato. Chi dei due abbia ragione, anzi meno torto, è argomento che
appassiona solo i militanti dei rispettivi partiti, diverte Berlusconi,
il quale osserva perplesso i suoi eredi che considera indegni, e
intristisce gli elettori del centrodestra, che vorrebbero vedere
quagliare i loro beniamini. Probabilmente tra dieci giorni il
centrodestra raccoglierà nelle urne quanto ha seminato, cioè poco, ma la
preoccupazione èche, se batosta dovesse essere, la lezione non sarà
compresa e anzi darà la stura a nuove polemiche e dispetti. Tra i due
litiganti, il terzo gode, e già circolano sondaggi che vedono il Pd
prima forza nazionale, con Fdi e Lega scalzati. Salvini e Meloni hanno
portato i rispettivi partiti a vette impensabili e mai raggiunte dai
loro predecessori. I numeri in politica sono quasi tutto, ma l’abilità
di un leader può permettergli di menare il torrone per quindici anni
senza mai neppure sfiorare il 20%, come accadde a Craxi, quanto
l’irrisolutezza può farlo sparire subito dopo avere incassato il 25%,
come accadde a Bersani. È straordinario che Giorgia e Matteo viaggino
intorno al 20% e il centrodestra unito sia al 48, ma è inquietante che
nessuno sappia cosa fare per ottimizzare tutto questo consenso che, se
non verrà impiegato presto e bene, si perderà.
Pages: 1 2