La guida Ue resterà franco-tedesca, malgrado Draghi

L’incertezza politica in cui è piombata la Germania dopo il voto di ieri ha acceso un tormentone tutto italiano: Mario Draghi alla guida dell’Europa insieme a Emmanuel Macron al posto di Angela Merkel, almeno nei prossimi mesi di interregno tra l’era della cancelliera e quello che verrà. L’idea gira tra i pollici nostrani, è anche evocata pubblicamente da taluni, è accattivante, di quelle che da italiani è d’uopo sostenere, più o meno come fare il tipo per la nazionale, ma lì si ferma. Il limite di Mario Draghi, personalità conosciuta e stimata a livello internazionale, è che è italiano, alla guida di un paese che al massimo può guidare la battaglia per la revisione delle regole fiscali del Patto di stabilità. Il che è tanta roba d’accordo e l’Italia ha guadagnato in standing internazionale da quando l’ex governatore della Bce guida il governo, ma è cosa ben diversa dall’avere un peso specifico nelle scelte strategiche. L’Italia non è ‘pesante’ nella geopolitica del continente e globale.

Di certo, Draghi lo sa, visto che non ha mai dato adito alle voci che corrono su di lui, da quelle che lo vogliono al Quirinale o ancora al governo, fino a quelle che lo indicano come il successore di Merkel, come il più adatto a raccogliere il testimone della cancelliera. Di adatto lo sarebbe, ci mancherebbe. Il suo limite – espressione che usiamo noi, lui è ovviamente orgoglioso di essere italiano come ha detto più volte – è che rappresenta un paese con un’economia appesantita da un debito pubblico che già prima della pandemia era oltre il 100 per cento del pil, un sistema da riformare da tempo come chiede Bruxelles inascoltata dai precedenti governi se non per alcune eccezioni comunque problematiche (Fornero), un impianto economico che non ha investito in Cina quanto hanno investito la Germania e la Francia, per fare un esempio.

Insomma l’Italia viaggia lenta. La velleità di poter guidare l’Europa resta tale nelle condizioni date, persino con un ‘asso’ come Draghi. Magari potrà succedere in futuro, se davvero, da qui al 2026, il paese farà tesoro dei 191,5 miliardi di euro del Next Generation Eu (più i fondi nazionali, oltre 200 miliardi di euro) e ne uscirà con un sistema totalmente trasformato, competitivo e con disuguaglianze ridotte. Ma per ora il tormentone è destinato a restare chiacchiera italiana, per questioni economiche, storiche e anche per una condizione geografica di periferia rispetto al centro d’Europa.

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