Con questa classe dirigente Meloni può andare a palazzo Chigi?
Giorgia Meloni, “donna, mamma, cristiana”, capo di un partito che il neofascismo lo ha tollerato adesso spiega che non c’è spazio “per atteggiamenti ambigui sull’antisemitismo o per il paranazismo da operetta” e ha fatto autosospendere Fidanza. Evidentemente – è possibile che non sapesse come si muovono i suoi più importanti dirigenti – c’è voluta Fanpage per farle scoprire l’andazzo in casa sua. La classica toppa, che per esempio non ha messo su Roma, dove candida il “camerata” Vincenzo Cuomo, ex capo ultras della Lazio, uno che sull’avambraccio destro ha impressa la scritta Werwolf: il nome dell’operazione nazista che il comandante delle SS, Heinrich Himmler, organizzò nel 1944 per contrastare l’avanzata degli Alleati nonché la denominazione che Adolf Hitler scelse per il quartier generale dell’Oberkommando in Ucraina. Un altro si chiama Milo Mancini, e ha tatuato sul braccio Benito Mussolini e la scritta dux. Un altro ancora, Gimmi Cangiano, alle scorse regionali in Campania come slogan usò il motto “me ne frego”. E così via.
E allora, certo: un partito del venti per cento non può essere un partito in cui tutti sono fascisti, però è un partito dove vige qualcosa di più di un sistema di “tolleranza” e di giustificazionismo: quel mondo viene coccolato e coltivato. E tutto questo vige perché la Meloni ha scelto di tornare indietro rispetto alla svolta di Fini e alla condanna del “male assoluto”, liberando, al momento della costruzione del suo partito, un sentimento represso. E dando ad esso piena cittadinanza pratica e legittimazione teorica, con la favoletta del “siamo oltre il Novecento”, buona per non fare i conti con la storia. Una melassa ambigua, di storia à la carte, in cui post-fascismo e nouvelle vague populista confluiscono nell’ostilità a una visione liberale della società e dell’individuo. Fintamente modernizzatrice, ma perfetta per non offendere i nostalgici. L’errore non è solo Fidanza, è nel manico.
L’HUFFPOST
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