Amministrative, la posta in gioco
Tutto bene per il destra-centro, allora, come che vadano queste elezioni? Ma no: non aspettarsene terremoti non significa escludere che possano avere conseguenze. Se la coalizione dovesse andar male, questo potrebbe non significare che il suo blocco elettorale si stia scongelando, ma potrebbe accrescere, e anche di molto, le tensioni e fragilità che già esistono al suo interno. Il destra-centro è il peggior nemico di se stesso: gli elettori gli sono piuttosto fedeli, ma lui fa ben poco per meritarsi questa fedeltà, che è tenuta in vita semmai dall’inettitudine dei suoi avversari. La competizione interna all’alleanza è più spesso distruttiva che costruttiva. La classe dirigente è a dir poco esile e fragile. Soprattutto, il problema di come rendere il consenso elettorale compatibile col governo del Paese entro i vincoli internazionali è tutt’altro che risolto. Un’eventuale sconfitta alle elezioni di domani renderebbe questi difetti ancora più evidenti e potrebbe esasperare il conflitto interno su come essi debbano essere affrontati. Anche se non è nemmeno da escludere, al contrario, che trovandosi entrambi in difficoltà, Salvini e Meloni finiscano per ricompattarsi. Fin quando il quadro politico complessivo e il sistema elettorale nazionale restano quelli attuali, a ogni modo, la coalizione dovrà conservarsi unita. A meno che le tensioni crescenti non ne spostino un pezzo consistente nel campo di quanti ritengono che la legge elettorale vada riformata in senso proporzionale: questo sì sarebbe un terremoto. Improbabile, a mio avviso. Ma stiamo pur sempre parlando della politica italiana, una sfera magica che, come l’Aleph di Jorge Luis Borges, contiene in sé tutti i mondi possibili.
MOVIMENTO 5 STELLE
Conte al suo primo vero esame con il fantasma di Grillo
(di Massimiliano Panarari)
Non è facile avere un’ipoteca sulla testa. Come quella della sconfitta annunciata (e dell’ordalia) che funesta i pensieri della leadership del M5S. Naturalmente, le consultazioni amministrative sono diverse dalle politiche, ma dopo la lunga sospensione pandemica un numero così elevato di cittadini che si reca alle urne produrrà un verdetto di tipo anche generale. Soprattutto per il soggetto che ha scassato il malfermo bipolarismo all’italiana, per poi indebolirsi con una rapidità imprevista, quasi da fenomeno politico intermittente. Evidenziando, sin dall’inizio, una natura da movimento di opinione più che da organizzazione in grado di esprimere un radicamento territoriale. E il problema della mancata costruzione di una classe dirigente locale e di un ceto di amministratori si riflette, va da sé, sul voto imminente, con le sue molteplici poste in palio. Se il M5S, che aveva conquistato le due capitali del Paese, subirà una Caporetto – o quanto meno un ridimensionamento pesante – verrà sotterrata definitivamente la possibilità stessa di una «cultura politico-amministrativa» pentastellata. Come pure, probabilmente, quella della sua competitività elettorale a livello locale – e lo ha già mostrato la difficoltà a presentare liste in vari comuni. Senza trascurare la questione della ricollocazione nel Movimento di Chiara Appendino e Virginia Raggi, considerando che la vittoria era arrivata anche in virtù della novità rappresentata da due giovani e battagliere candidate donne. Mentre la parabola grillina nelle due città vetrine si è consumata con la mancata ricandidatura della prima cittadina di Torino, e con la sindaca di Roma alle prese con l’inusitato «fattore C» (come cinghiali).
In caso di batosta – per quanto verrà tentato di derubricarla a incidente di percorso –, si scoperchierà il vaso di Pandora delle tensioni fra le correnti interne. E la neonata (e gracile) leadership di Giuseppe Conte verrà investita da una violenta onda d’urto, sebbene l’ex premier, al suo primo test elettorale, possa accampare la scusante di avere ereditato candidati altrui. Una giustificazione comunque insufficiente per evitare che si riapra il conflitto con i suoi due antagonisti per eccellenza, Beppe Grillo e Luigi Di Maio. A dispetto del carattere territoriale, la posta in gioco centrale di queste amministrative riguarda infatti la strategia politica di fondo. Rispetto al governo: ovvero se innalzare di nuovo la tensione e marcare i distinguo dall’operato di Mario Draghi per provare a risintonizzarsi con una fetta dell’elettorato di protesta originario. E rispetto alle alleanze, perché un’ennesima emorragia rilevante di consensi aumenta il potere contrattuale di Enrico Letta, ed espone il M5S al confinamento nella condizione di partitino satellite del Pd. E, a quel punto, la sola prospettiva di una residua autonomia passa per una legge elettorale proporzionale che consenta di evitare candidature comuni. Ridando, però, così anche ossigeno a coloro che non amano per niente la problematica coalizione giallorossa, e potrebbero essere tentati di riproporre la formula dell’ag(hett)o della bilancia.
DRAGHI E IL GOVERNO
La paura per le elezioni anticipate e il Parlamento bloccato
(di Marcello Sorgi )
Tra gli interrogativi della vigilia, certo, c’è anche il se e il come il risultato di domani potrà influire sulle sorti del governo. Draghi ha già scontato un rallentamento dell’attività dell’esecutivo (riforma fiscale, del catasto, della concorrenza) dovuta ai dubbi dei leader in corsa sulle conseguenze elettorali di ogni cambiamento. Ed è possibile che la stagione dei rinvii continui, il Parlamento essendo impegnato nella sessione di bilancio che solitamente blocca tutto, e i partiti in attesa della partita vera del Quirinale, che potrebbe ridisegnare i contorni della larga maggioranza che sostiene il governo.
Proviamo tuttavia a fare un esercizio di pura logica, per capire cosa potrebbe aiutare e cosa no SuperMario, fermo restando che i conti si faranno dopo i ballottaggi, imprevedibili molto più dei primi turni, quando appunto si potranno contare i sindaci di centrosinistra e centrodestra. Supponiamo che domani finisca come tutti o quasi si affannano a prevedere da giorni: 4 a 1 o addirittura 5 a 0 per il centrosinistra nelle grandi città ed elezione con buon margine di Letta nelle suppletive di Siena. Preventivabile un affacciarsi della voglia di voto anticipato nello schieramento vincente e un corrispondente rallentamento dello stesso desiderio nel centrodestra. I parlamentari inoltre, per votare questo o quel candidato al Colle, pretendono assicurazioni sul raggiungimento della scadenza naturale della legislatura, 2023, o almeno del superamento della boa di ottobre 2022, termine per il raggiungimento delle pensioni per i tanti che già sanno che non torneranno a Montecitorio o a Palazzo Madama. Quanto al centrodestra eventualmente sconfitto in quest’ipotesi, difficile immaginare una resa dei conti interna. Ognuno ha i suoi guai: Salvini ha Morisi con i festini a base di droga con gli escort gay; Meloni ha i filo-fasci e filo-nazi filmati da “Fanpage” mentre si dichiarano a favore di finanziamenti illeciti al partito; Berlusconi ha un’intera gamma di guai giudiziari che non finiscono mai. In due parole: altro a cui pensare.
L’ipotesi opposta, vittoria a sorpresa del centrodestra malgrado i rivolgimenti degli ultimi giorni non è all’ordine del giorno. Anche se tutto è possibile e la sconfitta temuta potrebbe essere addolcita dalla vittoria a Torino e nelle regionali calabresi. La tentazione elettorale, in questo caso, potrebbe farsi risentire, anche sulla base del vecchio precedente delle comunali del ’93 in cui i sindaci di centrosinistra spopolarono, ma pochi mesi dopo, il 27 marzo ’94, la vittoria nelle politiche andò a Berlusconi. In ogni caso, va ricordato, mai come in materia di scioglimento anticipato delle Camere tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. L’attuale presidente della Repubblica non può sciogliere perché è in semestre bianco. Il prossimo è nella mente del Signore. E se fosse proprio Draghi a salire al Quirinale dopo Mattarella? A Draghi, come si sa, di tutti questi ragionamenti non importa nulla. Farà quel che ritiene necessario per l’Italia.
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