Il Pd vince e può non avere il terrore delle politiche

BOLOGNA, ITALY - SEPTEMBER 12: Italian Government ex - Prime Minister Enrico Letta, now National secretary...
BOLOGNA, ITALY – SEPTEMBER 12: Italian Government ex – Prime Minister Enrico Letta, now National secretary of PD political party, attends the closure of PD’s national convention at PD Party National Convention on September 12, 2021 in Bologna, Italy. (Photo by Roberto Serra – Iguana Press/Getty Images)

Oltre ogni previsione il centrosinistra vince, perché è storico il risultato di Milano dove, per la prima volta da quando c’è l’elezione dei sindaci non era mai accaduto di chiuderla al primo turno col Pd che prende dieci punti in più del centrodestra, lì dove il centrodestra è nato e sono nati due dei suoi leader, Salvini e Berlusconi, mai così bassi. E così vale per Torino, dove è in vantaggio rispetto non a un improvvisato “pistolero”, ma all’imprenditore Damilano ritenuto solido, anzi il più promettente. Così come è storico il risultato di Napoli, che chiude la lunga fase populismo nella versione del masaniello De Magistris. E poi Roma, dove il risultato di Michetti, inferiore alle liste, consente di guardare con assoluta fiducia al ballottaggio.

E oltre ogni previsione il centrodestra perde, in quello che è sembrato un “suicidio per sventramento”, per usare un termine dei giapponesi, tra la scelta sbagliata dei candidati e il gioco al massacro tra Salvini e la Meloni, che, impegnati a spostare la spada nell’addome l’uno dell’altra, hanno certificato un’immaturità tale da rendere, il più saggio, da quelle parti il vecchio Berlusconi. La sindrome del precipizio da leadership declinante per il leader della Lega, la sindrome dell’alta quota per la leader di Fdi: paralizzati dalla tenzone sulla leadership che si consuma sul terreno del governo Draghi, l’uno preoccupato della vittoria dell’altro, hanno innescato una spirale da gioco a perdere, che, a farlo apposta, non avrebbe potuto avere un risultato così perfetto. Di cui fa parte l’isterismo da scandali degli ultimi giorni, la più straordinaria conferma di un problema di classe dirigente che riguarda non solo i candidati, ma anche chi li ha scelti.

È come se tutto avesse congiurato per far vincere il centrosinistra, ben oltre i suoi meriti, tra cui c’è, eccome, la scelta di candidati tra cui si intravede nessun leader del futuro, ma certo figure competenti e rassicuranti, così rassicuranti da rappresentare una stabilità ai limiti della conservazione. E infatti convincono il ceto medio, medio alto: il famoso popolo della Ztl che ha rappresentato il motore della partecipazione e del consenso del Pd. E anche quel mondo produttivo che, a Milano, preferisce il pragmatico Sala all’avventura di partiti che, a livello nazionale, avversano una bandiera del partito del Pil come il Green Pass. Ecco il punto: in condizioni “normali” il risultato potrebbe essere considerato un trailer delle politiche che verranno. Ma proprio la partecipazione suggerisce prudenza. Il centrosinistra può guardare con meno terrore alle prossime politiche, ma il film è ancora tutto da scrivere e interpretare. E non solo perché la memoria storica corre all’illusione del’93, quando i progressisti vinsero in tutte le principali città italiane, ma poi la “gioiosa macchina da guerra” si arrese ai moderati che poi si riorganizzarono attorno alla leadership di Berlusconi.

La verità è che la vittoria del Pd è una vittoria “politica”, non un “plebiscito sociale”, nell’ambito di un momento ancora straordinario segnato da una clamorosa scissione tra sistema politico e popolo. Mai si era vista, in Italia, un’affluenza così bassa: il minimo storico a Torino (48,1, quasi dieci punti in meno rispetto alla volta scorsa), il minimo storico a Milano (47,7, otto punti in meno della volta scorsa), a Roma (48,8, quattro punti in meno) anche a Bologna, di poco superiore al 50, scende di 8 punti. Meno della metà. Non hanno votato le famose periferie – il cuore della rivolta – che, nell’ultimo decennio si sono affidate al populismo (Cinque stelle prima e Lega poi) in nome di avversione radicale all’establishment e di un bisogno di protezione sociale ceti piegati dalla globalizzazione e della grande crisi. C’è, dentro questo dato, tutta la crisi di chi ha incarnato la rivolta, promettendo il “tutti a casa” per poi governare con tutti pur di non andare a casa, la lotta all’establishment per poi diventare tali, insomma il senso di inutilità del voto.

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