Il M5S è spaccato e Dibba si fa il partito
Federico Capurso
ROMA. Giuseppe Conte si è convinto, ormai, che mantenere la pace nel Movimento e accontentare tutti è semplicemente impossibile. C’è Beppe Grillo che non vuole sentirsi imbrigliato, Virginia Raggi agitata perché sempre più ai margini, e c’è Luigi Di Maio, appena nominato presidente dell’organo di Garanzia del Movimento, con una visione politica che di rado coincide con quella dell’ex premier. La prossima settimana arriveranno le nomine della segreteria, più tardi quelle per i capigruppo di Camera e Senato, tutte destinate a creare scontenti. E fuori c’è anche Alessandro Di Battista, che pensa alla nascita di un nuovo movimento. Di fronte a tutto questo, il leader M5S ha capito che non può aspettare e deve iniziare a prendere posizione. Innanzitutto, sull’appoggio a Roma del candidato del Pd, che arriva in serata, ospite di DiMartedì: «Voterò Gualtieri».
Non era mai stato così netto. Dice che «non è un’indicazione per gli elettori del Movimento», ma nei fatti non può essere altro che questo. I parlamentari, che vengono a sapere nel primo pomeriggio quello che lui dirà solo poche ore più tardi, si riuniscono in capannelli rumorosi nel cortile della Camera. In molti protestano: «Così ci schiacciamo troppo sul Pd», è la voce più diffusa. Tra i deputati più vicini a Di Maio i timori vengono declinati in funzione della legge elettorale. L’attuale sistema maggioritario premia le alleanze e sembra che Conte non abbia intenzione di modificarlo. L’accordo con il segretario del Pd Enrico Letta per costruire un campo progressista favorirebbe lui e non Di Maio per un ruolo di rilievo. I fedelissimi del ministro degli Esteri vorrebbero quindi passare a un proporzionale puro, in modo da poter «essere ancora ago della bilancia alle prossime elezioni». Con le mani libere, insomma, per stringere alleanze anche con il centrodestra, in una riedizione dell’attuale governo. Visioni che non collimano, appunto.
A Roma il Movimento non entrerà in giunta, ma grazie all’esplicito appoggio di Conte potrà dare «un parere» – così lo definiscono in ambienti Dem – sulla scelta della squadra di assessori di Gualtieri. Insomma, nomi graditi che aiutino a creare una convergenza. Se Gualtieri vincerà, poi, dovrà dimettersi dal ruolo di deputato. E Conte – non è un caso – sta pensando seriamente alla possibilità di candidarsi alle eventuali elezioni suppletive a Roma, appoggiato dal Pd. Raggi invece non ne vuole sapere. Il rapporto con Conte, d’altronde, resta pieno di spigoli. Difficile da recuperare. La sindaca uscente continua a muoversi in autonomia, come nell’incontro avuto ieri con alcuni consiglieri comunali nella sede centrale del partito, nonostante fosse arrivata una richiesta chiara, dai piani alti, di usare un altro luogo. All’incontro però si sono presentati in pochi. I parlamentari torinesi temevano invece che l’appoggio a Gualtieri potesse coinvolgere anche loro, che osteggiano il candidato del Pd Stefano Lo Russo. Ma Chiara Appendino è in corsa per un posto da vicepresidente del M5S e Conte le ha dato la sua parola. Quella di Appendino sarebbe una poltrona che pesa, peraltro, perché i posti da vicepresidente si sono dimezzati. Dovevano essere 6 o 7 e saranno invece 3, al massimo 4. Di Maio, però, dovrebbe avere una quota e c’è la viceministra Castelli in pole position. Chi non entrerà, invece, si unirà alla schiera dei malpancisti, con il rischio ancora nell’aria di un’ennesima emorragia di parlamentari.
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