L’autunno di Lamorgese, il ministro della paura che non ferma i violenti
Ora non la difendono più né Mario Draghi, né il Pd. E per Luciana Lamorgese inizia l’autunno. Un autunno che rischia di consegnarla alla storia come il ministro della paura. Una paura che lei non ha saputo né comprendere, né arginare e che, complice la pandemia, è tracimata dagli ospedali alle piazze trasmettendo confusione e incertezza all’intera nazione. Una paura generata non dai timori di un ritorno del fascismo, come fa credere il Pd di Enrico Letta, ma dall’inadeguatezza di un ministro dell’Interno che in 25 mesi di mandato si è dimostrato incapace di garantire ordine pubblico e sicurezza dei cittadini.
Il calvario della Lamorgese non inizia a Piazza del Popolo, ma nel settembre 2019 quando, succeduta a Matteo Salvini, s’illude di aver convinto l’Europa ad accollarsi i nostri migranti. La favoletta dura qualche settimana, ma è poca cosa rispetto alle mancanze di un ministro che non visita le zone martoriate dal Covid, cancella i decreti Sicurezza e non riesce ad arginare gli sbarchi. Un’inadeguatezza che sconfina nel ridicolo quando fallisce persino lo sgombero di un rave che per tre giorni si fa beffe delle misure anti-Covid imposte al Paese. O, peggio, quando finisce con l’alimentare i risentimenti sociali offrendo tamponi gratis ai portuali di Trieste. Ma quei precedenti sono solo il prologo dell’inadeguatezza politica ed operativa emersa a Piazza del Popolo. La carenza politica è evidente.
Un ministro degli Interni non può ignorare il rischio di riunire in una piazza della capitale diecimila dimostranti privi di leadership e animati non da un programma politico, ma da una confusa commistione di paura, rabbia e risentimento sociale. Il farlo senza aver predisposto le opportune garanzie di sicurezza, come aveva chiesto il premier Mario Draghi, equivale ad affidare quella piazza alle mani del primo agitatore. A quest’assenza di visione si sono aggiunte una serie di mancanze operativa imperdonabili per un ministro che in precedenza occupava la poltrona di Prefetto di Milano. La prima, fondamentale per qualsiasi operazione di ordine pubblico, è stata l’assenza di un’analisi d’intelligence, affidata a Digos e servizi, indispensabile per garantirsi una radiografia dei movimenti presenti e degli eventuali piani d’infiltrazione. E se è stata eseguita è stata richiesta a personale non all’altezza.
Un corretto lavoro di intelligence, sollecitato dal responsabile del Viminale, avrebbe permesso di fermare sulla porta di casa un pluri-inquisito come Giuliano Castellino, inseguito dal divieto di presenziare a manifestazioni e da una denuncia per detenzione di cocaina. E quel fermo preventivo avrebbe anche evitato alla Lamorgese la brutta figura e i sospetti generati quando ha esposto, tra lo sbigottimento del Parlamento, la decisione di non arrestarlo in piazza per evitare incidenti.
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