Il gioco del calamaro

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di   Massimo Gramellini

Ho appena visto un gruppo di adolescenti giocare a «Uno due tre… stella» su un campetto di periferia, circondati da altri ragazzi che spruzzavano il contenuto delle loro pistole ad acqua in faccia agli eliminati. Stavano imitando «Squid game» («Il gioco del calamaro»), la serie televisiva coreana che in meno di un mese è già entrata nella testa di centoventi milioni di esseri umani, sconvolgendoli quasi tutti, me compreso. È la storia di 456 poveri cristi, indebitati fino al collo, che accettano di partecipare a una sorta di «Giochi senza frontiere» in cui un concorrente vince l’intero montepremi e gli altri 455 vengono eliminati fisicamente da guardie mascherate. Uccisi per il sollazzo di un manipolo di ricconi che assiste allo spettacolo dai maxischermi, scommettendo come alle corse dei cavalli.

Un successo mostruoso, in tutti i sensi, che esaspera il meccanismo cinico e competitivo di tanti programmi televisivi. Se a noi europei appare caricaturale è perché abbiamo ancora uno straccio di Stato Sociale. Per un coreano le premesse appaiono invece assolutamente realistiche.

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