La mia idea sulla rivoluzione
Il mito e la critica
Nasce il mito e comincia la storia della critica della rivoluzione. La rivoluzione è un mito, un ideale ma, con la Rivoluzione francese, non è più soltanto un mito, un ideale, diventa qualcosa che si può mettere in pratica, che si può realizzare. Questo è il punto. La forte carica positiva che ha la rivoluzione sta nell’essere un ideale a cui l’umanità aveva sempre pensato in termini trascendenti – la vita, la società migliore, il mito della società più giusta non è di questo mondo –, mentre per la prima volta viene considerato come qualche cosa che si può realizzare in questo mondo e non nell’altro. Il rivoluzionario è colui che, a differenza del cristiano, dice «il mio regno è di questo mondo». Ma nel momento stesso in cui la rivoluzione è immanente, non è più trascendente, cioè è un ideale che si può realizzare, ecco che entra nella storia, ed entrando nella storia diventa oggetto di critica, di verifica. Cioè, si è veramente realizzato quell’ideale? Il mito è veramente diventato realtà?
Di fronte al mito che diventa realtà ecco l’atteggiamento critico, la critica della rivoluzione: la meta che il rivoluzionario si pone è troppo alta rispetto a quelle che sono le circostanze storiche, le circostanze oggettive, per poter essere realizzata; la rivoluzione è un «al di là» che non può mai diventare un «al di qua»; la rivoluzione è quasi per essenza un ideale che non si può realizzare, tende alla propria realizzazione, ma in realtà non si può realizzare; la rivoluzione è sempre qualche cosa di incompiuto, di non finito, il tentativo di fare la rivoluzione, cioè di trasformare il mito in realtà, rinvia sempre a una rivoluzione ulteriore; la rivoluzione di fatto rimanda sempre a un’altra rivoluzione e di qua nasce, secondo me, l’idea della «rivoluzione permanente», cioè è legato al concetto di rivoluzione il fatto di essere permanente, nel senso che la rivoluzione non si può attuare in un colpo solo, proprio perché quest’ideale supremo, questa meta suprema, è irrealizzabile oppure è una meta a cui ci si può avvicinare di volta in volta, rivoluzione per rivoluzione.
È certo che di fronte alla Rivoluzione francese questo atteggiamento della rivoluzione incompiuta era proprio degli stessi rivoluzionari dell’Ottocento: Marx e in genere tutti i rivoluzionari pensavano che la Rivoluzione francese fosse una rivoluzione incompiuta, che doveva essere continuata. Ecco dunque che il problema della rivoluzione provoca di per sé stesso l’atteggiamento antirivoluzionario. Da questo punto di vista «rivoluzione» ha un significato positivo per i rivoluzionari e negativo per i non-rivoluzionari; dico non-rivoluzionari per non dire contro-rivoluzionari, perché i non-rivoluzionari sono tutti coloro che ritengono che la rivoluzione non sia necessaria e che non sia neppure possibile. […]
Ieri Bovero (che ha seguito e partecipato attivamente al corso) alla fine, quando ho chiuso il discorso, mi ha detto: «Ma lei che cosa ne pensa?». Si parlava delle diverse valutazioni della rivoluzione: la rivoluzione può avere una valutazione positiva o negativa, a seconda delle ideologie. Io ho detto: non credo di dover rispondere, perché ho sempre uniformato il mio insegnamento al principio weberiano della scienza come professione e vocazione, Wissenschaft als Beruf, vale a dire che, anche se ciascuno di noi ha le sue opinioni politiche, le sue ideologie, quando parla dalla cattedra è meglio che le tenga un po’ fuori.
La cattedra non è per i profeti
Ho sempre apprezzato l’ideale dell’intellettuale che mantiene un certo distacco critico nei confronti della vita pratica, soprattutto quando è all’università e nell’aula ha degli studenti. Ho ripetuto spesso quella bellissima frase di Max Weber, il quale in questo saggio, La scienza come professione, dice che la cattedra «non è per i profeti e per i demagoghi»; tra l’altro demagoghi e profeti sono personaggi che abbiamo incontrato lungo il corso di quest’anno.
A proposito di profeti si potrebbe ricordare un’altra frase celebre, quella di Hegel, un passo delle Lezioni di filosofia della storia, che mi pare di aver citato quest’anno, in cui, dopo aver cercato di spiegare quali sono i grandi mutamenti della storia, dice che non si propone il problema di rispondere alla domanda dove va la storia, perché il compito del filosofo non è quello di fare profezie. Per il filosofo c’è già tanto da fare per capire il passato e il presente, non c’è bisogno che si lanci nell’avventura della profezia del futuro.
Max Weber, dopo aver detto che la cattedra non è né per i profeti né per i demagoghi, aggiunge: «Al profeta e al demagogo è stato detto: “Esci per le strade e parla pubblicamente”. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire e controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche» .
Comunque, siccome Bovero mi aveva chiesto alla fine qual era la mia opinione, io ho detto che avrei risposto non con le mie parole, ma con le parole di un noto filosofo della scienza e della politica insieme, che è Karl Popper, cioè faccio mie le parole sue. Si tratta di un saggio in cui Popper e Marcuse si contrappongono l’uno all’altro proprio sul tema «riforme o rivoluzione». Popper dice così: «La violenza genera sempre maggiore violenza. E le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari e corrompono i loro ideali. I sopravvissuti sono soltanto i più abili specialisti dell’arte di sopravvivere. Ciò che una rivoluzione di sinistra sicuramente produrrebbe è la perdita della libertà di criticare, di fare opposizione. Se la dittatura che ne risulterà sarà di destra o di sinistra, ciò dipende dal caso ed è comunque sostanzialmente una differenza di nomenclatura».
Per una società più razionale
Siccome ho avuto anch’io occasione di scrivere queste stesse cose, senza riferirmi a questo passo di Popper, lo cito con una certa convinzione. «Io sostengo che solo in una democrazia, in una società aperta, abbiamo la possibilità di eliminare ogni inconveniente. Se distruggiamo questo ordinamento sociale con una rivoluzione violenta, non solo siamo responsabili dei pesanti sacrifici della rivoluzione stessa, ma creeremo una situazione che rende impossibile eliminare i mali sociali, l’ingiustizia e l’oppressione. Io sono per la libertà individuale e odio come pochi la strapotenza dello Stato e l’arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario, è impossibile farne completamente a meno. E purtroppo è vero: più sono gli uomini, più c’è bisogno dello Stato. Con la violenza si può facilmente annientare l’umanità. Ciò che è necessario è lavorare per una società più razionale, in cui in sempre maggior misura i conflitti siano risolti razionalmente. Dico: “più razionale”! In verità nessuna società è razionale, ma ce n’è sempre una più razionale di quella esistente e verso la quale abbiamo perciò il dovere di tendere. Questa è un’aspirazione realistica e non un’utopia!».
Se poi voleste anche un motto, il giorno in cui compilerò un volume di saggi, di questi ultimi saggi, che non so come chiamarli, di filosofia militante, per usare il titolo di un mio libro recente, ecco io sceglierei questo motto di Voltaire: «Io credo che la basilica di San Pietro sia molto bella, ma io preferisco un buon libro inglese scritto liberamente che centomila colonne di marmo» .
Con questo ho finito
LA STAMPA
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