W le macchine ma solo l’uomo fa innamorare
di MICHELE BRAMBILLA
La scorsa settimana ho partecipato a un seminario (all’Università di Bologna) sull’intelligenza artificiale e a un forum organizzato dal nostro editore (alla Villa Reale di Monza) per fare il punto sulla ripartenza dei settori della cultura e dello spettacolo dopo il Covid. Sono due temi che sembrano non avere nulla a che fare l’uno con l’altro. Invece un nesso c’è, e ha a che fare con quanto di più profondo ci sia nell’umano. Direi addirittura con il mistero dell’umano. Al seminario sull’intelligenza artificiale è stato spiegato in che cosa le macchine potranno rimpiazzare gli esseri umani.
Praticamente in tutto, hanno sostenuto alcuni relatori. Non ci sarà mestiere – vien detto – che non possa essere svolto da una macchina. Poiché il terzo mestiere a sparire dovrebbe essere quello del giornalista, ho cercato di spiegare agli studenti perché questo non succederà mai. Sarà anche vero, infatti, che una macchina potrà scrivere eccellenti articoli (anche se dubito meglio di un Buzzati o di una Fallaci): ma chi fornirà alla macchina le informazioni da comporre in bella prosa? Chi raccoglierà le notizie? Con esempi concreti, ho cercato di spiegare perché il nostro lavoro si fonda soprattutto su conoscenze e rapporti confidenziali: su contatti umani, insomma. E non l’ho detto per difendere la categoria: è che mi pare assurdo pensare (pretendere?) di far sparire l’uomo.
Eppure al seminario hanno spiegato che perfino la giustizia funzionerà così: non ci saranno più i giudici ma macchine che immagazzineranno indizi e prove ed emetteranno, infine, una sentenza. E quando la presidente dell’Ordine degli avvocati Elisabetta d’Errico ha provato a far presente quanto sia importante cogliere e interpretare gli sguardi, il tono di voce, il linguaggio del corpo di un testimone o di un imputato, le è stato risposto che la macchina lo saprà fare in modo più oggettivo.
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