Con il voto nelle città s’è aperta una fase diversa
La vittoria del centrosinistra, e soprattutto del Pd, è netta: a Roma e Torino, dopo Milano, Napoli e Bologna conquistate al primo turno. Lo è altrettanto la sconfitta del centrodestra, che mantiene solo Trieste e vince in Calabria; e, al suo interno, della componente populista sia della Lega che di Fratelli d’Italia. Ma sull’intero sistema politico si allunga l’ombra di un astensionismo che inserisce elementi di ambiguità e di allarme sui risultati. E stende un pesante alone di incertezza sulla tenuta e l’evoluzione delle alleanze e delle leadership.
Di fatto, dopo il voto di ieri si apre, non si chiude una nuova fase. Se ne cominceranno a vedere i contorni a partire dall’elezione del presidente della Repubblica, a febbraio del 2022. In quel momento si materializzeranno altre alleanze. E si capirà se il premier Mario Draghi potrà mettere in sicurezza gli aiuti europei senza essere frenato o, peggio, boicottato da partiti a caccia di rivincite o di scorciatoie elettorali. Enrico Letta, segretario del Pd, sostiene che l’opinione pubblica è più avanti dei partiti.
Avrebbe compiuto nelle urne la saldatura che la litigiosità della sinistra e il protagonismo delle sindache grilline non è riuscita a produrre. Ma il corollario di questa affermazione è la necessità di analizzare a fondo perché oltre la metà, in alcuni casi perfino due votanti su tre, siano rimasti a casa. Letta ha aggiunto che il successo di ieri si deve all’unità del suo schieramento. Forse. Eppure, più che unito il centrosinistra si è accreditato come unitario: merito indubbio, da verificare nel tempo.
Per paradosso, è quanto non ha dimostrato il centrodestra. Si è presentato unito ma non unitario; anzi, larvatamente rissoso e diviso. La conflittualità per la leadership tra il leghista Matteo Salvini e Giorgia Meloni, di FdI, ha finito per danneggiare entrambi; e di ripercuotersi sui candidati, buoni o meno buoni che fossero: con Silvio Berlusconi nel ruolo di osservatore perplesso. Tutti tendono a additare l’astensione come un elemento che finirà per logorare gli eletti. Recriminare su questo fenomeno per giustificare la propria sconfitta, però, sa di autoassoluzione e di alibi.
Non essere riusciti a portare gli elettori alle urne è, comunque, responsabilità dei partiti che li hanno chiamati a scegliere. Per questo, da oggi si apre una questione che riguarda ogni forza politica. Ma una cosa è rimodellare le alleanze da una base di consenso vincente; altra, ripartire da una sconfitta resa più bruciante dalla pretesa di essere maggioranza nel Paese. Per il Pd, infatti, il tema è come trovare anche con gli alleati quel «campo largo» evocato come ambizione e ancora virtuale; creato dagli elettori, ma ridotto a caricatura dalle memorie di scissione dei renziani e dall’evanescenza dell’asse con il M5S di Giuseppe Conte.
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