Elezioni: nella crescita del non voto, decisivo il declino dei partiti di protesta
O, almeno, un modo per col-legarsi con la società. Per scegliere da che parte stare. Oppure, si votava per ragioni concrete, per sostenere un “politico” che poteva aiutare il tuo ambiente. La tua categoria. O, ancora, per interesse. Da molti anni, però, non è più così. E per votare ci vogliono buone ragioni. Espresse da soggetti efficaci e visibili sul territorio.
I sindaci, però, come abbiamo già osservato, non hanno più il peso di un tempo. Contano di più i “governatori”.
Inoltre, da tempo, è cresciuto il peso del voto “contro”. Di “sfiducia”. Uno dei principali fattori del successo del M5S, nello scorso decennio. Votare per un “non-partito”, infatti, era equivalente al “non-voto”. Un’alternativa all’astensione.
Ma questo orientamento, oggi, appare circoscritto. Come a Torino, dove oltre 2 elettori su 3 di Valentina Sganga, candidata del M5S, uscita al primo turno, al ballotaggio non hanno votato (secondo i flussi di SWG). E, ancor più, a Roma, dove, al secondo turno, si sono astenuti 3 elettori di Virginia Raggi su 4 (ancora SWG).
Ma, soprattutto, conta il fatto che il M5S sia divenuto un “partito”. Di governo. Così lo spazio del disagio democratico è rimasto nuovamente “vuoto”. Senza riferimenti in grado di dare evidenza al disincanto. Come alternativa al “non-voto”, divenuto, nuovamente, “un voto”, che ha favorito il successo del PdA. Il “Partito dell’Astensione”.
REP.IT
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