Il primo passo delle riforme

Pietro Garibaldi

Il Governo Draghi ha approvato la sua prima legge di bilancio, quel provvedimento governativo che un tempo si chiamava legge finanziaria. Dopo tanti anni di stagnazione, quella varata ieri è la prima finanziaria di un Paese che finalmente è tornato a crescere, anche se non dobbiamo mai dimenticare che la crescita del 6 percento rappresenta un rimbalzo dopo la peggior recessione del dopoguerra. In termini macroeconomici, quella varata dal Governo è una correzione di bilancio espansiva.

I provvedimenti riguardano circa 30 miliardi di euro tra variazioni di entrate e nuove spese, ma saranno finanziati per circa 23 miliardi in deficit, che in semplici parole significa attraverso l’emissione di nuovo debito pubblico.

Ovviamente il contesto internazionale, la sospensione delle regole europee e l’esistenza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rendono questo provvedimento realizzabile senza difficoltà nel breve periodo.

In parte grazie a questa manovra espansiva, il Governo e i principali istituti internazionali prevedono che il paese continuerà a crescere nel 2022 con un robusto 4-5 per cento. Rimarremo pertanto in un periodo macroeconomico in cui ai cittadini si concede ben più di quanto si chiede loro, come aveva efficacemente detto prima dell’estate il Presidente del Consiglio. L’attesa più importante di molti cittadini è quella legata alla riduzione delle tasse per circa 12 miliardi (pari a 0.7 % del PIL), attualmente accantonata in un fondo del quale non si conoscono ancora i beneficiari. Probabilmente queste risorse saranno utilizzate per ridurre le imposte sul lavoro e il cosiddetto cuneo fiscale, la differenza tra quanto le imprese pagano il lavoro e quanto effettivamente entra in cassa ai lavoratori. Quella forbice è una tra le più alte dei paesi OCSE e cercare di ridurla è cosa buona e giusta. Spesso si è cercato di farlo, ma i risultati sono stati modesti. Legati al mondo del lavoro vi sono poi altri due provvedimenti di cui si è molto parlato. In termini previdenziali, per il 2022 si passa da quota 100 a quota 102. Si potrà quindi andare in pensione con 64 anni di età e 38 anni di contributi. Non è una riforma della previdenza, ma una misura tampone che rimanda di un anno il problema del cosiddetto scalone, quel rischio di un rapido aumento dell’età pensionabile per le generazioni nate intorno al 1958. Il Governo destina poi circa 3 miliardi di Euro per la riforma degli ammortizzatori. Rispetto alle aspettative, si è forse partorito un topolino, poiché con 3 miliardi di euro difficilmente si potrà mettere ordine al complesso sistema degli ammortizzatori sociali che in Italia rimane frastagliato e iniquo, penalizzando i giovani precari. Il Governo ha poi annunciato una stretta sul reddito di cittadinanza. Il provvedimento introdotto dal primo Governo Conte ha contribuito a ridurre la povertà, ma sappiamo che ha anche generato fastidiosi abusi. In aggiunta, non è servito a facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Questo non deve stupire, poiché era quasi impossibile che con un sussidio di ultima istanza – quale è il reddito di cittadinanza – si potesse risolvere lo storico problema della distanza tra offerta e domanda di lavoro.

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