La società e i rischi di un Paese che ormai dice no a tutto

Le regole del gioco si fanno insieme e la partita è invece tra avversari. In Italia succede il contrario: le regole elettorali o costituzionali cerca di imporle la maggioranza effimera di turno e invece il governo si fa tutti insieme o, comunque, con schieramenti tenuti insieme con la colla derelitta «dell’evitare che vinca o governi quell’altro».

Un governo all’anno, in media. Così è stato nella Prima Repubblica, della quale è sciagurato avere nostalgia, ma così è anche in questa Repubblica uno bis. E l’Italia è stato l’unico Paese europeo a sperimentare, in vari momenti delle sue crisi più drammatiche, formule di governi tecnici presiedute da personalità rilevanti. E spesso è a questi governi, per estremo paradosso, che si possono collegare i momenti di più radicale cambiamento, le stagioni di più intenso cambiamento. È stato così con Ciampi, Monti, ora con Mario Draghi.

Quando la politica perde la sua capacità di affrontare il disagio sociale con risposte minute e concrete e, al tempo stesso, rinuncia ad accendere un sogno che sia energia vitale della vita democratica, allora si fanno strada i No come risposta difensiva, rabbiosa; come paura di un futuro che non si riconosce nitidamente, del quale non si distingue il profilo.

E non sono il No coraggioso dei dodici professori, solo dodici, che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo. Non sono i No educativi che, come diceva Giovanni Bollea nella presentazione del libro di Asha Phillips, «aiutano a crescere». Non sono quei no cha hanno accelerato i cambiamenti o conquistato libertà perdute. Sono No impauriti, carichi d’odio, in fondo conservatori. La loro rilevanza deve certo essere relativizzata, per non confondere lo stato d’animo di minoranze con lo «spirito del tempo».

Ma non possono essere considerati solo un problema di ordine pubblico. Sarebbe un grande errore.

Anche perché si sta facendo strada il più pericoloso dei sentimenti, per una democrazia: il No al voto, di cui abbiamo avuto drammatica — e sottovalutata — prova nelle recenti elezioni amministrative, pure da sempre le più care agli italiani.

Rigenerare la politica, ritrovare la bellezza dei confini programmatici e ideali, definire regole condivise, mettere fine al grande caos di questi anni, generato dalle culture populiste di ogni risma, e riprendere il cammino per una democrazia dell’alternanza, attuabile con diversi sistemi elettorali, che restituisca ai cittadini il potere di decidere chi li governa.

Forse la via è più semplice e naturale di quanto sembri. Basta volerlo.

CORRIERE.IT

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