Draghi e il paradosso del Quirinale: è il principale candidato e quello che rischia di bruciarsi prima

Ilario Lombardo

Quanto è mancato il Transatlantico alla politica italiana! Appena riaperto, e appena la folla di parlamentari, ministri e giornalisti ha avuto l’occasione di rimescolarsi, il lungo corridoio dei pettegolezzi si è subito rivelato il luogo ideale per confessioni inedite e strategie ancora da mettere a punto. L’altro ieri in aula si votava il decreto Proroghe, alla presenza di un pezzo di governo. Fuori, due ministri, due instancabili animatori di capannelli, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, entrambi del Pd, cercavano di dare soddisfazione alla sete di politica delle truppe dei deputati semplici e, al contempo, di concedere riparo ai tormenti da rielezione di molti di loro. Ricercatissimo, Franceschini ha offerto la sua versione dei fatti sull’imminente partita quirinalizia che sta gettando nell’ansia leader e peones. E che ora potrebbe divorare il sonno di chi sperava in Sergio Mattarella, dato che il presidente della Repubblica, citando il precedente di Giovanni Leone, ha ribadito che non intende rimanere al Colle per un nuovo mandato.

Il centro della discussione di mercoledì alla Camera è Mario Draghi: cosa farà? O meglio: cosa vorrebbe fare, visto che è rimasto prigioniero di un paradosso: è il candidato principale ma anche quello che potrebbe essere bruciato più facilmente. Ai suoi interlocutori Franceschini racconta di una sempre maggiore «irritazione» del presidente del Consiglio. Irritazione che sarebbe rivolta soprattutto al Pd, il partito che più di tutti è stato sin dall’inizio tiepido sulla possibilità del passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Per il ministro della Cultura il ragionamento è semplice ed è stato questo: «Draghi deve capire che con il voto segreto, lo spettro delle elezioni anticipate e la sopravvivenza politica di mille parlamentari in gioco non è così semplice e scontato». Però, il ministro della Cultura apre anche uno scenario che finora, nelle mille ipotesi in cui si è detto tutto e il contrario di tutto, non era stato delineato da nessuno. «Draghi potrebbe dimettersi comunque», dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, o potrebbe minacciare di farlo, se non dovesse essere più lui il candidato. Lo farebbe, secondo il messaggio consegnato da Franceschini ad alcuni parlamentari, perché si sentirebbe sfiduciato dai partiti, la quasi totalità del Parlamento, che sostengono la coalizione del suo governo di unità nazionale. Stando a una tesi simile che circola tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia, Draghi giustificherebbe il suo passo indietro sostenendo di aver completato il lavoro per cui era stato chiamato da Sergio Mattarella, sulle riforme legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e sulle vaccinazioni. A maggior ragione se dovesse andar via dal Quirinale il presidente con il quale aveva stretto l’impegno del governissimo. Un impegno che sulla carta avrebbe dovuto avere un orizzonte di un anno, come fino alla scorsa estate sosteneva in forma privata anche il ministro dell’Economia Daniele Franco.

La premessa da fare è nota: Franceschini è un nome sempre presente nella lista, ogni giorno più lunga, dei candidati al Colle. Dunque, ogni ragionamento non può che essere, in parte, interessato. Nel Pd, dove tanti leader si dividono il sogno del Quirinale, sono moltissimi a farne uno simile. «Se non cambiano le condizioni, a oggi Draghi è paradossalmente il candidato più debole» si sentiva dire in un capannello attorno al professor Stefano Ceccanti, deputato e costituzionalista dem. Nel M5S, Luigi Di Maio intravede un pericolo simile. Il ministro degli Esteri punta sulla continuità del governo ma appare anche più interessato a mettere al riparo il premier dal rischio di finire incenerito nel falò dei franchi tiratori. «Siamo partiti troppo presto con il totonomi, così – sostiene in queste ore con i 5 Stelle più fidati – finisce male».

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