Draghi e il paradosso del Quirinale: è il principale candidato e quello che rischia di bruciarsi prima
Di Maio conosce benissimo le paure dei parlamentari e sa che Draghi ha una sola alternativa: «Deve dare una prospettiva al Parlamento, di sopravvivenza». Altrimenti il Parlamento non ti vota. Nessuno, tra deputati e senatori, vorrà essere artefice del proprio suicidio politico, a un anno dal termine della legislatura.
Ma sugli scenari del governo, che si aprirebbero dopo la scelta del Colle, c’è un’altra lettura che viene fatta in queste ore. In parte segue la logica delle dimissioni che ci sarebbero comunque: è una lettura che curiosamente unisce l’ex premier Giuseppe Conte e chi lavora a stretto contatto con Draghi. Il leader del M5S nel giro di una settimana è stato costretto a smentirsi o quasi: prima ha sostenuto la candidatura dell’ex presidente della Banca centrale europea come perfetta per il Quirinale, poi, di fronte ai parlamentari 5 Stelle in subbuglio, ha definito «prioritario» che Draghi rimanga a Palazzo Chigi e che la legislatura prosegui. In realtà, Conte pensa che sarà complicato per il premier governare dopo che la catarsi quirinalizia, a un anno da nuove elezioni, avrà liberato gli istinti dei partiti. Sarebbe un esecutivo azzoppato dalla campagna elettorale, magari senza più la Lega dentro, in un contesto dove il l’ex banchiere non avrà più la stessa agibilità per governare.
In fondo, Draghi si trova intrappolato in un ruolo, dentro uno schema dove ci sono troppe variabili incontrollate. Riadattato al caso in questione, lo stallo in cui si trova il capo del governo fa pensare al “dilemma del prigioniero”, esempio di teoria dei giochi applicata tra gli altri ambiti anche alla psicologia. Se resta candidato al Quirinale rischia di essere bruciato dai parlamentari che temono il voto anticipato. Se invece si sfila dalla corsa al Colle per portare a naturale scadenza, da premier, la legislatura, sa che potrebbe avere un governo a sovranità limitata, infilzato dai partiti che non vanno tanto per il sottile quando c’è da contendersi il consenso degli elettori. L’irritazione di Draghi è direttamente proporzionale al numero di leader che vanno a ingrossare le fila di chi gli chiede di rimanere dov’è: il Pd, il presidente di Fi Silvio Berlusconi, Conte e anche Matteo Renzi che per il premier pronostica ruoli alla guida dell’Europa. Non ci sono molte soluzioni: o Draghi resta al governo e fa un patto di legislatura, con o senza la Lega, o trova una successione credibile a Palazzo Chigi e lui fa da garante, con un regista solido in Parlamento, mentre si offre alle votazioni delle Camere riunite in seduta comune. La terza strada, se la ricostruzione di Franceschini tiene, è la minaccia di andarsene comunque.
LA STAMPA
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