Quirinale, il timore nei partiti: governo al capolinea se Draghi non va al Colle

di Stefano Cappellini

ROMA – Il rebus del Quirinale era già per solutori più che abili. Da ieri, dopo la parole di Sergio Mattarella che di fatto escludono un suo bis al Colle, il livello di difficoltà è salito ancora. L’esclusione di una delle opzioni principali a disposizione ha aumentato la confusione nei partiti e l’allarme nel governo. Non che ci fosse un pre-accordo o che Mattarella avesse mai avallato l’ipotesi di una sua rielezione, ma il fatto che non l’avesse neanche esclusa garantiva al Palazzo una specie di effetto placebo, l’idea che ci fosse comunque una rete di protezione stesa a evitare rovinose cadute di sistema.

Ora resta in campo, ovviamente, l’altra grande opzione, quella che porta a Mario Draghi. Ma è praticabile in Parlamento? E chi può aprirle la via? Soprattutto, la domanda che più agita parte della maggioranza è: che ne sarà del governo se non fosse Draghi il punto di caduta dell’accordo tra i partiti? L’esecutivo sarà in grado di proseguire o il rischio è che il presidente del Consiglio si trovi ancora più esposto alle resistenze della sua frastagliata coalizione?

Sia chiaro: Draghi non ha mai chiesto di andare al Colle. Non l’ha neanche mai escluso, almeno pubblicamente. L’impressione che più di un ministro ha ricavato dagli scambi degli ultimi giorni è che nel suo entourage – non tanto lo staff tecnico quanto le figure a lui più vicine – stia crescendo il malumore per la resistenza che i partiti mostrano a imboccare quella che viene considerata la più naturale delle soluzioni per scavallare il rinnovo del capo dello Stato: il trasferimento di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Nulla autorizza a sostenere che questi umori rappresentino il pensiero personale del presidente del Consiglio. Ma siccome, invece, tutto autorizza a verbalizzare l’insofferenza di Draghi per lo stato litigioso in cui versa la maggioranza, la paura di chi teme un crash istituzionale è che il suo mancato approdo al Colle sia comunque letto come una sconfitta del premier: il tana liberi tutti per gli insofferenti e i coscritti a forza dell’unità nazionale.

Raccontano in Transatlantico, riaperto dopo la lunga chiusura per Covid giusto in tempo per il riaffollarsi di sussurri e confidenze sul risiko del Colle, che Dario Franceschini fosse tra i più preoccupati per lo scenario che si sta addensando in vista della scadenza di Mattarella. Il rischio, spiegava il ministro della Cultura a un paio di deputati, è che il malcontento di Draghi cresca a livelli di allarme. Nessuno, ovviamente, pensa che l’ex governatore della Bce possa lasciare di sua volontà nel 2022 – non con un Pnrr ancora tutto da implementare e un’emergenza Covid in fase crescente – però chi legge oltre gli schemi più elementari sa che in politica le trappole peggiori non sono mai quelle più in vista: Draghi al Quirinale pone il tema della sua difficile sostituzione, Draghi lontano dal Quirinale apre quello, non meno insidioso, della tenuta politica del suo governo.
Il giudizio più diffuso nelle segreterie di partito è che, al momento, sia difficile un accordo preventivo sul nome del premier. La Lega salviniana recalcitra, un pezzo di Pd e il M5S fedele a Luigi Di Maio vuole evitare il salto nel buio di un governo affidato a un tecnico (Daniele Franco?), la minoranza dem rimasta fedele a Luca Lotti sostiene sia il turno di un politico. Del resto, anche chi caldeggia l’elezione di Draghi è animato da obiettivi inconciliabili: chi vuole mandarlo al Colle per votare subito (Meloni, ma anche il dem Bettini), chi per toglierlo dalla contesa politica ma senza tornare al voto (Conte) e chi per sublimarne il ruolo (Giorgetti con il suo semipresidenzialismo de facto).

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