Il Quirinale e la sfida del Campari

MASSIMO GIANNINI

Dunque, per le vie sempre più impervie che portano al Colle, questa settimana abbiamo appreso due cose. La prima è che l’attuale presidente della Repubblica non è disponibile a un reincarico. La seconda è che l’attuale presidente del Consiglio, nello spritz, preferisce il Campari all’Aperol. Sembra una boutade, ma non lo è. Nell’accidentato percorso istituzionale che nel febbraio 2022 deve condurre il Paese all’elezione del nuovo Capo dello Stato i due protagonisti principali occupano la scena politica con una postura totalmente diversa. Le ragioni sono comprensibili. Per molti versi giustificabili. Ma, con tutto il rispetto per i diretti interessati, non troppo a lungo sostenibili. Sergio Mattarella dice quel che pensa. Un bis al Quirinale è in ogni senso una torsione del sistema. Riflette una logica da “stato di eccezione” permanente. Prefigura un clima da “Repubblica emergenziale” non giustificato dalla fase, per quanto delicata sia dal punto di vista sanitario e finanziario.

Suggerisce l’idea malsana di un Paese che ha sfiducia in se stesso, nelle sue istituzioni, nelle sue risorse morali e materiali. Non a caso, nella sua visita a Torino, il presidente dice: «Il nostro è un grande Paese, lo lascerò in ottime mani». Giustamente, vuole rassicurare gli italiani e gridare al mondo che l’Italia ce la farà, che non è all’ultima spiaggia, e che dopo di lui, chiunque lo sostituirà, non ci sarà nessun diluvio. Rievocare Giovanni Leone, e il suo netto rifiuto al principio della rieleggibilità presidenziale, è perfettamente funzionale a questo messaggio di fiducia. Come lo fu il no di Carlo Azeglio Ciampi, che nel 2006 lasciò il Quirinale dicendo che la nostra non è una “monarchia costituzionale”, e che la riconferma “mal si conffà” a una Repubblica parlamentare.

Ciò non toglie che se si dovesse ricreare il drammatico stallo che nel 2013 obbligò Giorgio Napolitano a restare al suo posto, per manifesta irresponsabilità dei partiti, anche Mattarella potrebbe essere costretto a rivedere la sua posizione. Ma sarebbe un pessimo indizio di patologia politica. La conferma di una perdurante crisi di sistema. Che c’è, lo dicono i fatti. Ma va curata, non cronicizzata.

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